Nelle settimane scorse ho letto commenti feroci su Bohemian Rhapsody e sull’edulcorata biografia di Freddy Mercury narrata nel film. Come dice bene Gabriele Niola su Wired: «La vita di Freddie Mercury in Bohemian Rhapsody è contrassegnata dal desiderio di appartenere a qualcosa o a qualcuno, il desiderio di fare pace con un’identità sessuale che lo privava degli affetti per come li desiderava e quello di conciliarsi con una famiglia che non vedeva di buon occhio ciò che faceva».
In pratica si è compiuta un’opera di revisione a tratti davvero incredibile su una delle figure più significative degli anni ’80 per la comunità gay, emblema di eccesso e liberazione sessuale. Una vera e propria opera di normalizzazione, a cui mi sembra di assistere quotidianamente attraverso l’immagine che la società contemporanea vuole imporre delle persone Lgbt, oggi subdolamente rispetto ai decenni passati.
Il messaggio è abbastanza chiaro e semplice: film, pubblicità, talk show e quant’altro ci veicolano in chiave positiva le persone omosessuali che riproducono il paradigma della “famiglia del Mulino Bianco”: in coppia monogama, magari con figli, la casa col giardino e il cane, addirittura qualcuno che va pure la domenica a messa dal prete gay-friendly, e poi ovviamente una serie di scheletri negli armadi, chiusi a chiave a doppia mandata.
Ciò che trovo personalmente incredibile e inaccettabile è poi leggere sui vari social tantissime persone omosessuali, gay e lesbiche, non soltanto esaltare questo modello (che al più potrei anche accettarlo, essendo uno dei tanti modelli possibili) ma addirittura contrapporlo ad altri modelli, con giudizi vergognosi su chiunque eserciti la propria libertà di essere se stesso. C’è una critica e un’offesa per chiunque: per chi non crede nel matrimonio, per le coppie aperte, per chi frequenta le saune o le dark, per chi si prostituisce o comunque è a favore della prostituzione… e potrei continuare all’infinito, perché basta essere fuori da quel modello e finisci per essere a prescindere un “cattivo modello”.
Questi omosessuali dimenticano che quei pochi diritti, ancora incompleti, che abbiamo oggi discendono direttamente dalle lotte di liberazione sessuale degli anni ’70 e ’80, dai tacchi lanciati in testa ai poliziotti, dai pride colorati e spesso pieni di eccessi, da chi ha messo tutto se stesso (e a volte perfino la propria vita) per ottenere uguaglianza. E uguaglianza non vuol dire essere tutti uguali, perché quella dell’uguaglianza normalizzata è la trappola dell’omologazione e della repressione, che respinge chiunque è al di fuori di un modello imposto: e dunque schiaccia il diverso che sia il nero, la donna che non si sottomette, l’individuo considerato “eccentrico” e così via. Essere uguali vuol dire avere tutti le stesse possibilità, e avere la possibilità di essere se stessi/e senza dover subire vessazioni o etichette o giudizi e critiche feroci.
Lo so che questo discorso suona strano fatto da un uomo gay bianco, affermato professionalmente, con un marito e due figli: ma credo che invece sia tanto più importante per me farlo, perché ho bisogno di sottolineare che il mio non è affatto un modello da seguire, ma solo uno dei tanti possibili, né io voglio ritrovarmi ingabbiato nell’immagine della “famiglia del Mulino Bianco” perché sono contento di tutti i miei difetti, le mie scelte quotidiane, le mille sfaccettature che mi fanno sentire vivo. E ciò che voglio insegnare a Luca e Alice è proprio ad essere pienamente se stessi, perché la diversità è ricchezza e la normalizzazione, anche quando ci sembra rassicurante, è solo un trappola.
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