Con 372 voti a favore e 51 contrari, l’11 maggio del 2016 la Camera dei Deputati approvava definitivamente la legge sulle Unioni Civili.
Dopo un percorso lungo e molto doloroso per le persone LGBT+ e per i figli delle coppie dello stesso sesso (di cui in quei mesi di dibattito parlamentare si sono dette le peggiori nefandezze immaginabili) l’Italia aveva finalmente la prima legge che riconosce non solo le coppie di uomini e di donne, ma la stessa esistenza nella società delle persone gay, lesbiche e bisex. Un traguardo che, va riconosciuto, non sarebbe stato raggiunto senza la testardaggine e la caparbietà di Monica Cirinnà e pochi altri parlamentari, come Sergio Lo Giudice.
Ma, appunto, il dibattito che accompagnò l’approvazione della legge e il suo stesso iter, tra mille modifiche, fu talmente svilente che quel giorno di tre anni fa in piazza a festeggiare non c’era, come era successo altrove, una folla gioiosa. C’erano poche decine di attivisti e attiviste. Quasi tutti felici. Qualcuno piangeva di gioia perché non avendo più 20 anni, non pensava che avrebbe mai assistito a quel giorno.
Per qualcun altro, invece, l’emozione fu diversa. Una giornata storica, senza dubbio, ma macchiata dall’avere lasciato indietro i figli delle famiglie arcobaleno.
Lo stralcio delle stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner) era stato l’ultimo schiaffo. “Un buco nel cuore” lo aveva definito Monica Cirinnà nel suo intervento finale al Senato, alla vigilia del voto di fiducia. Un buco che la dava vinta alla parte più reazionaria di quella maggioranza di governo che festeggiò parlando di “rivoluzione antropologica” evitata. Complice, va ricordato, il voltafaccia del M5S.
Tre anni dopo, sono migliaia le coppie che si sono dette “sì” coronando un sogno, ma soprattutto riconoscendo diritti e doveri reciproci. Non importa il numero esatto: siamo già caduti nella trappola di dare un valore ai diritti usando le cifre. Non lo faremo di nuovo: un diritto è un diritto anche se a goderne è una sola persona. Un diritto è un diritto anche se si sceglie di non goderne. Ma “scegliere” è la parola chiave.
Tre anni dopo quella legge, che ebbe anche qualche difficoltà ad essere subito pienamente applicata (ricordate il decreto ponte e, poi, i decreti attuativi che non arrivavano mai? e ricordate i sindaci che avanzavano pretese di “obiezione di coscienza”?), ha assunto il valore di baluardo dei diritti civili in un paese in cui si tenta di mettere in dubbio perfino diritti che pesavamo ormai consolidati.
Aborto, divorzio, diritto d’asilo e le stesse unioni civili sono spesso oggetto di un dibattito pubblico che è diventato un tritacarne di odio e violenza. Insomma, altro che matrimonio egualitario, legge contro l’omotransfobia, riconoscimento della genitorialità alla nascita: la parola d’ordine, in questi mesi, è “resistenza”.
“Da tre anni, in Italia, famiglia si declina finalmente al plurale, con tutti i colori dell’arcobaleno, senza escludere nessuno”, scrive Monica Cirinnà in un suo post su Facebook. Nonostante il ministro Fontana e il vicepremier Salvini facciano di tutto per negarlo. La realtà, là fuori dai palazzi del pregiudizio, è questa. Le unioni civili sono, ormai, routine. E da qui non si torna indietro. Se ne facciano una ragione.
E oggi, per una coincidenza, è anche il giorno del primo dei Pride del 2019. Oggi Vercelli si tinge di arcobaleno al grido di “A braccia aperte”. Oggi è il giorno che apre la stagione dell’orgoglio e della rivendicazione nell’anno dei 50 anni di quella notte in cui, allo Stonewall Inn di New York, il movimento nasceva simbolicamente con un colpo di tacco lanciato contro la repressione. Di quel tacco, di quell’orgoglio, di quei corpi e di quelle vite “fuori norma” c’è ancora bisogno.
Da lì si riparte.
Buon pride a tutte e tutti!
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