C’è un mantello dell’invisibilità, da qualche parte qui in Europa, che copre i libri. Sottile, in verità, come un velo. E no, non c’entra nulla Harry Potter. È l’effetto, invece, della legge anti-Lgbt in vigore in Ungheria, dall’inizio di agosto. Lo riporta The Washington Post. Il governo ungherese ha ordinato alle librerie di porre in confezioni chiuse quei libri per bambini che trattano di omosessualità. E non finisce qui: secondo quanto emerge, il provvedimento vieta inoltre l’esposizione in pubblico di tutti quei libri e prodotti che raffigurano o promuovono le differenze di genere entro i 200 metri da una scuola o una chiesa. Stessa sorte per tutti i libri o contenuti multimediali che trattano i temi dell’omosessualità o del cambiamento di genere.
La scelta ungherese, vista qui in occidente, ricorda due cose. Una, abbastanza vintage: ovvero, gli scaffali a parte, che tenevano gli edicolanti di un tempo, quando per accedere alla pornografia si doveva comprare un giornale in carta stampata (erano lontanissimi i tempi di Youporn et similia). La seconda, molto più grave delle misure dei giornalai, la censura. E la riduzione conseguente di un intero ambito di studi (cioè i gender studies) e un genere letterario (ovvero la letteratura Lgbt) a qualcosa di molto simile alla pornografia, a ben vedere. Se poi ci mettiamo che Viktor Orban ha affermato che tali misure – conseguenti a una legge che dovrebbe colpire la pedofilia – mirano solo a proteggere i bambini, il cerchio si chiude.
Di fronte a situazioni del genere, e alle doverose campagne di protesta che ne conseguono, il pensiero torna a quelli che vengono a dirti di affrontare la questione in paesi ben peggiori, come quelli con regimi islamici. “Comodo prendersela con Orban, va’ a protestare in Afghanistan, se hai il coraggio”: questo ci si sente dire da chi, in buona sostanza, non fa altro che dirti di non lamentarti, perché alla fine mica ti ammazzano. E allora ripensi al velo. E a ciò che copre. Qui, il velo dell’invisibilità – se preferite: della censura – nasconde i libri. Lì, quello del fanatismo religioso, copre corpi interi. E le idee che entrambe le realtà portano con sé.
Certo, le due situazioni non sono paragonabili. In Ungheria la condizione delle persone Lgbt+ è infinitamente migliore, rispetto a certi paesi di fede musulmana. Ma, al netto delle differenze, non è una condizione buona quella ungherese. Men che mai dignitosa, se la tua cultura viene ridotta a pornografia e viene incasellata da una norma giuridica che la mette sullo stesso piano delle violenze sui minori. Il pensiero non può non andare in direzione di quei politici che, negli ultimi giorni, hanno attaccato il regime dei talebani, col pretesto della difesa della libertà individuale e dei diritti delle donne.
Principi più che giusti, ovviamente, ma se difesi seguendo principi di coerenza. Perché non puoi scagliarti contro un regime dittatoriale, che limita i diritti di una categoria, quando poi mostri vicinanza e solidarietà – e parliamo di fatti – nei confronti di un altro (molto illiberale) che limita i diritti di espressione nel proprio paese. E non sei credibile quando fai alleanze con il partito di Orban e poi, al Parlamento europeo, fai pressioni affinché «l’Italia e la Ue condannino apertamente e prendano le distanze dagli Stati che hanno nel loro ordinamento il reato di omosessualità», riferendoti però solo ai paesi islamici. La matrice, infatti, è la stessa. Per quanto lontane possano essere quelle realtà, per quanto diverse le misure, per quanto differente il carico di violenza. Ma sempre di violenza si parla. E di censure. Di veli, reali o metaforici che siano, messi ora addosso a donne ora addosso a idee. E qui c’è ben poca differenza.
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