La pacchia è finita per i migranti, dice il ministro degli interni. È finita anche per la gay community, possiamo aggiungere.
Lo scorso sabato, il Bologna Pride ha messo al centro della manifestazione il tema dell’oppressione portando avanti diverse istanze, solo all’apparenza lontane dalla comunità. Nel documento politico erano al centro le persone senza dimora cacciate a “tutela del decoro” pubblico, la “demonizzazione delle identità non conformi” e, non ultima, la questione dei migranti, anche ricordata durante il corteo indossando magliette rosse.
Per questo, sul palco è intervenuto anche Paolo Ayoubi, siriano, dell’associazione Il Grande Colibrì, per raccontare le istanze della comunità lgbt migrante.
Ho parlato alla folla della mia Siria ferita. La gente ascoltava e applaudiva. I visi erano luminosi di gioia e di stupore davanti a questo immigrato che, tutto sommato, conosce bene la lingua italiana e ha abbastanza coraggio da toccare certi temi.
Alcuni purtroppo mi hanno detto “Tornatene in Siria!“. Io credevo di aver sentito male. Ho continuato il mio discorso e la folla interagiva con tanto slancio e gioia. Ma gli insulti continuavano ad arrivare, soprattutto da una signora vestita di nero che era presente vicino al palco, ma non era l’unica. Sentivo affermazioni del tipo: “Tornatevene a casa!“, “Prima noi!“, “Prima gli italiani!“. Quando parlavo di come viene usata la retta da 35 euro nei progetti dedicati ai richiedenti asilo, i toni diventavano più insistenti: “Sono 45!“, “Sono 100 euro!“, “Gli italiani prima!“, “Andatevene a fanculo!“.
Insomma, il razzismo cova anche nel pride di una roccaforte rossa come Bologna. Certo, si osserverà, sono solo casi isolati. Forse. Ma perché restino casi isolati quanto inevitabili bisogna che non si ignori il segnale: il racconto tossico proposto dalla politica degli ultimi mesi sta scatenando una pericolosa caccia al più debole. Mentre ci vogliono abituare a credere che rimbalzare navi cariche di vite umane sia giusto e nel nostro interesse, solo pochi giorni fa, a Forlì, la caccia all’uomo nero si è trasformata in un’aggressione a colpi di pistola ad aria compressa dove sono rimaste ferite due persone di origini africane. Mentre in Italia c’è chi festeggia ogni sbarco sventato, dall’altra parte del mare le madri continuano a vestire i loro piccoli con magliette rosse perché siano più visibili durante le traversate.
Ma, come scritto poco fa, la “pacchia” non è finita solo per i migranti. La paura per il diverso, alimentata ad hoc dalla politica nazionale, ha le stesse radici dell’omotransfobia. La comunità lgbt, forse ancora sotto i postumi della sbornia per i festeggiamenti per la legge sulle unioni civili, deve tenere a mente che non siede su un’isola felice lontana da qualsiasi attacco. Dovrebbe -sebbene abbia seri dubbi a riguardo- aver maturato gli anticorpi per riconoscere i pericoli che corre se non si alzerà con fermezza in piedi a difesa degli ultimi. Oggi più che mai abbiamo il dovere di prendere posizione contro l’odio e, soprattutto, contro l’indifferenza.