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Alle 50 lesbiche contro l'”utero in affitto” dico: non è il maschio il nemico

Voglio tornare sulla questione delle “50 lesbiche contro l’utero in affitto”. Premettendo subito una cosa: non voglio avere figli, né con l’adozione né con la Gpa. E non perché credo che in una coppia di maschi non si possa crescere bene un bambino, ma perché sono profondamente egoista e a malapena riesco a badare a me stesso: figuriamoci se posso star dietro a chi ha invece diritto a tutta la tutela possibile. E questo per mettermi al riparo da eventuali accuse di conflitto di interessi.

Cristina Gramolini, una delle firmatarie dell’appello

Detto ciò, comincerei a sottolineare tutta l’infelicità di quell’appello – supportato da esponenti di associazioni-persona e da attiviste che forse hanno confuso il termine “femminista” con quello di “neocatecumenale” – e di certe incursioni in giornali che si qualificano sempre più come di “regime intellettuale” per le ragioni che proverò a esporre.

In quelle pagine, per altro pure formattate male, si parla di mercificazione del corpo: secondo quella vulgata, i maschi brutti e cattivi vanno in giro per il mondo a sfruttare donne smarrite, rapinarne capacità procreative e sottrarre loro infanti innocenti. Tale semplificazione dipinge in realtà la donna come soggetto incapace di fare delle scelte – e non lo dico io, ma Chiara Lalli, donna anche lei – di decidere di se stessa e dell’uso che vuole fare del suo corpo. Per tale motivo, le firmatarie di quell’appello si arrogano il diritto di decidere per tutte. Esattamente come il sistema patriarcale che dicono di combattere e che evidentemente le ha assimilate. Non è un caso, a ben vedere, se la stessa Paola Binetti ha dato la sua benedizione al documento. A Roma le si chiamerebbe “poracce”.

Quando quelle attiviste parlano di sfruttamento capitalista del corpo femminile, sembra che non sia loro ben chiaro che tale condizione sussiste anche quando indiane, vietnamite e altre abitanti di quei luoghi (insieme alla popolazione maschile) vengono pagate meno di un dollaro al giorno per cucire magliette o palloni. Come mai questi appelli non riguardano quasi mai questo tipo di sfruttamento? È forse lecito utilizzare la fisicità di un essere umano per creare la ricchezza delle multinazionali, mentre è sempre sbagliato se mette al mondo una vita per altri? Sarebbe interessante capire questa contraddizione.

Chiara Lalli, bioeticista e favorevole alla Gpa

Definendosi inoltre “lesbiche contro l’utero in affitto”, contribuiscono a creare una gigantesca mistificazione che strumentalizza l’orientamento sessuale per veicolare l’idea – data anche la campagna mediatica scaturita dalla discussione sulle stepchild adoption – che i gay maschi siano profittatori delle donne del terzo mondo. Adesso io capisco che, da qualche tempo a questa parte, per alcune (lesbo)femministe radical chic da salotto metropolitano è divenuto prioritario perseguitare le scelte procreative dei padri gay e indagarne le (presunte) perniciose ragioni che le animano con piglio da santa inquisizione, ma questa riduzione “gay + maschio = sfruttamento” l’avevamo già vista, con tanto di nausea conseguente, nei passati family day. Di cui le firmatarie diventano, per ovvie ragioni, membri ad honorem. Contente loro…

Sembrano incapaci, ancora, le stesse di considerare altri fatti: laddove la surrogacy è a pagamento, avviene in forme completamente diverse tra loro. Nei paesi come l’India, ad esempio, non è permesso ai gay di ricorrere alla Gpa. Laddove è aperta alle coppie omosessuali come in Usa, le donne che si mettono a disposizione sono econimicamente indipendenti e psicologicamente vagliate, proprio per evitare soprusi di qualsiasi natura.

Una famiglia arcobaleno per la campagna del Roma Pride

È sospetto, ancora, che da qualche tempo l’argomento sia stato agitato solo al momento in cui si prevedeva di riconoscere la genitorialità alle coppie gay, con la legge per le unioni civili. Forse le femministe che hanno firmato quell’appello considerano il maschio come nemico naturale, confondendolo col patriarcato di cui anche gli uomini a ben vedere sono vittime. E andrebbe ricordato a costoro che esiste una complessità di fenomeni per cui, al di là della guerra dei sessi, può esserci invece un’alleanza tra questi. La genitorialità maschile, per mezzo del dono di donne consenzienti, sembra andare in tale direzione. È pure comprensibile che chi ha basato il proprio intero attivismo su tale contrapposizione poi si senta mancare il terreno sotto i piedi, eppure questa linea non solo non risolve il problema, ma genera un’ingiustizia per cui agli omosessuali è preclusa ogni forma di genitorialità biologica.

Ancora una volta, in buona sostanza, si son descritte le donne come povere imbecilli e i maschi come vili predatori (e se non è sessismo questo!). Un consiglio che mi sento di dare a queste quarantanove sentinelle dell’utero di tutte le altre è il seguente: magari la prossima volta, prima di produrre ed aderire ad appelli di questo tipo, sarebbe il caso di uscire da certi circoli ristretti e guardare cosa accade nel mondo reale. Si potrebbero avere delle belle sorprese sulla vita di genitori arcobaleno e sulle loro famiglie. Storie di cui nulla, voi attiviste (sedicenti, a questo punto?) da comunicato stampa, nulla sapete e su cui continuate – in modo arrogante e in un certo qual modo violento – a pontificare.

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