Quando ho visto ieri su Twitter il cinguettio della senatrice Angelica Saggese (Pd) ho capito che forse questo 8 marzo andrebbe dedicato alle donne che scelgono di fare le gestanti per i figli di altre coppie. Non che ci fosse bisogno del tweet di Saggese per parlare di donne e gestazione per altri, sia chiaro, ma la senatrice scrive: “#8marzo quest’anno dedico il mio 8 marzo alla battaglia delle donne per il riconoscimento dell’utero in affitto quale reato universale“.
Frutto di un dibattito viziato dal pregiudizio e dalla non conoscenza reale dell’argomento, l’invocazione del reato universale è fuorviante tanto quanto utilizzare l’espressione “utero in affitto”, tanto più quando a farlo è una donna. Perché non c’è niente di femminista né di difesa della donna nell’invocare il reato universale per la gestazione per altri. Proviamo a capire perché.
Se non vogliamo guardare oltre i confini del nostro staterello, possiamo almeno volgere lo sguardo indietro nella nostra storia a quando, per l’esattezza, l’aborto in questo paese era illegale. Il risultato non era che nessuna donna abortiva, ma che le donne abortivano clandestinamente finendo spesso in mani impreparate con tutti i conseguenti rischi in termini igienici, di sicurezza e di salute, inclusa la morte. In quegli anni, donne coraggiose come Emma Bonino e Adele Faccio fecero della pratica dell’aborto una pratica politica che rivendicava il diritto delle donne di scegliere in sicurezza, e le piazze vedevano già da qualche anno le femministe bruciare reggiseni e rivendicare che “l’utero e mio e lo gestisco io”. Una grande battaglia di civiltà ed emancipazione della donna che certo non si limitava all’interruzione di gravidanza, ma andava ben oltre.
Quasi quarant’anni dopo quelle battaglie, invece, pare che del proprio utero le donne non possano più decidere. O meglio, almeno alcune donne. Quelle che per qualche ragione non sarebbero in grado di farlo (ben tornato, paternalismo). Si parla di sfruttamento della donna e addirittura di schiave, mettendo nello stesso calderone donne che vivono in condizioni sociali ed economiche estreme, o in paesi in cui la questione della negazione di diritti è molto più vasta, e donne che invece vivono in paesi che la comunità internazionale non si sognerebbe mai di mettere in discussione sul piano dei diritti umani. Sono paesi come il Canada e alcuni stati degli Usa, dove la gestazione per altri è rigidamente regolamentata e dove le donne che scelgono di portare avanti una gravidanza per altri, lo fanno come scelta consapevole. Una scelta che scardina il concetto di maternità a cui siamo abituati, quello per cui una donna che partorisce un figlio ne è la madre (a meno che non lo abbandoni). In questi casi colei che partorisce il bambino, con cui non ha alcun legame biologico essendo l’ovulo di un’altra donna ancora, accetta preventivamente che ad esserne i genitori siano i componenti di un’altra coppia (etero, gay, poco importa). Le donne, in Canada e in California, ad esempio, vengono ammesse come gestanti solo se rispondono a determinati criteri che servono ad assicurarsi che non ci sia uno stato di bisogno economico all’origine della scelta e che la persona in questione sia psicologicamente stabile e preparata a quel particolare tipo di gravidanza.
C’è un contratto? Sì: tutela la donna così come la coppia e il bambino. C’è uno passaggio di denaro? Sì: serve a pagare la clinica e/o l’agenzia che fanno da intermiediari e che forniscono alla donna tutti i servizi necessari, dall’assistenza sanitaria, a quella legale, a quella psicologica. La donna percepisce del denaro? Sì: chi ha affrontato una gravidanza sa quanto possa costare e sa anche che le circostanze potrebbero richiedere di rimanere a casa senza lavorare. E no, non tutti i sistemi di welfare prevedono la cosiddetta maternità per le lavoratrici. Il costo della Gpa rende la pratica accessibile solo alle persone facoltose (fantasmi di capitalismo si agitano all’orizzonte)? Vero, ma la soluzione è semplice: regolarla anche in Italia per permettere che sia accessibile anche alle persone meno benestanti. Perché vi svelo un segreto: nessuno garantisce, men che meno una legge che vieti universalmente la gestazione per altri, che in Italia nessuno ricorra a questa pratica in maniera illegale per pochi spicci.
Bisognerebbe ricordarsi che la legge, in questo paese, permette di partorire anonimamente: cosa impedisce a una coppia che vuole un figlio e non può averne diversamente, di pagare poche migliaia di euro ad una donna indigente o magari giunta sui barconi e destinata alla strada, perché partorisca un figlio anonimamente? Che è, per sommi capi, quello che succede nei paesi che chiamiamo “del terzo mondo”, dove sì ci sono seri rischi di sfruttamento e schiavitù. Ma non ho visto nessuno stracciarsi le vesti chiedendosi come mai una donna tailandese o indiana possa trovarsi in condizione di essere costretta contro la sua volontà a partorire il figlio di altri. Perché come hanno ricordato bene gli attivisti della Favolosa Coalizione di Bologna sabato scorso dal palco di Diritti alla Meta, dovremmo non dimenticare che la battaglia per i diritti civili non può essere scissa da quella per i diritti sociali. Nessuna persona al mondo che non sia affrancata dai bisogni primari si batterà mai per la propria autodeterminazione e la propria libertà di scelta. Pensare il contrario è illudersi. Significa lasciare le cose come sono? Assolutamente no. Significa, piuttosto, chiedere regole più rigide e stringenti e preoccuparsi della condizione della donna anche tutto intorno al suo utero.
Reato universale, dunque, per tutti, in tutto il mondo, a prescindere da quali siano le condizioni sociali, politiche ed economiche dei singoli paesi. Il Bangladesh come il Canada, il Malawi come la California. Da “l’utero è mio e lo gestisco io” siamo passati, dunque, a “l’utero è tuo ma lo gestisco io” (che sembra tanto quel cartello visto non poco tempo fa ad una manifestazione antiabortista: “l’utero è mio e lo gestisce Dio”). Insomma se devo decidere di interrompere una gravidanza, posso disporre del mio utero, ma se devo scegliere se portarla a termine, per contribuire a un progetto di famiglia, allora no, non posso più. In quel caso altri decidono per me. Perché, esattamente?
In tutto questo, pare che le donne che hanno partorito figli per altri non abbiano voce in capitolo. Perché se si facesse lo sforzo di ascoltarle il quadro sarebbe molto più chiaro. Vanessa, Jamie, Danielle, Amber sono i nomi delle poche, pochissime donne che qualcuno, in questi mesi s’è preoccupato di far parlare per se stesse, perché sono anche i loro gli uteri di cui si chiacchiera e non sono staccati dal resto del corpo come una protesi meccanica.
È a loro, a volte inconsapevoli avanguardie, che vorrei dedicare questo 8 marzo alla loro autodeterminazione e alla loro consapevolezza che non ha alcuna intenzione di farsi ingabbiare in schemi previsti da altri e da altre, chissà dove e chissà perché. Lo dedico a loro e anche a tutte quelle donne che, al contrario, non possono decidere autonomamente del proprio corpo e del loro futuro perché per loro dovremmo batterci a 360 gradi, prima e dopo la maternità e tutto intorno al loro utero.
Si chiamava Adele Faccio con la o alla fine
Piccolo refuso, grazie della segnalazione 🙂