Come da migliore tradizione, la polemica su Achille Lauro rispetta pienamente i canoni della liturgia del Festival della canzone italiana, più noto ai più come Sanremo. Come al solito, l’ennesima esibizione sul palco dell’Ariston ha schierato il pubblico in apocalittici ed entusiasti, scatenando reazioni per cui guelfi e ghibellini di trecentesca memoria, al confronto, sarebbero impalliditi. Ciò che non è molto chiaro, a mio giudizio, è il perché di quell’esibizione e la natura delle reazioni che ha suscitato, soprattutto nella mente dei più feroci contestatori. Premesso che, va da sé, Achille Lauro può benissimo non piacere e che la canzone può anche sembrare (o addirittura essere) brutta. Ma non è questo il punto della situazione.
Il cantante, a pochi secondi dall’inizio della sua esibizione, ha subito tolto un elegante mantello che lo avvolgeva. Quindi ha cominciato ad esibirsi con una tuta aderente color carne, ricoperta di glitter e materiali “luccicosi”, mostrando i tatuaggi e le forme. Le sue movenze non erano quelle che un certo linguaggio in uso nelle app di incontri per soli uomini definirebbe con la fatidica formula MxM, il suo girovita presentava un accenno di maniglie e in mezzo a questo tripudio di liquidità di genere, le gambe non erano nemmeno depilate. Seguono, dunque, i commenti. Dai più garbati e civili, ai più rozzi e ignoranti. Molti provenienti anche dalla stessa comunità Lgbt+ (dai maschi gay, nello specifico) e, manco a dirlo, intrisi della solita omofobia interiorizzata (avanguardia pura, direbbe Miranda Priestly).
«L’arte è provocazione» ci ricorda sul suo blog su L’Espresso Paolo Romano. «Può esserlo, dovrebbe esserlo» continua, «in qualsivoglia latitudine si voglia spostare l’asse del pensiero. Quindi, la domanda successiva sarebbe: la canzone di Achille Lauro è arte? la performance è provocatoria? No, No». Per poi chiedersi qual è la ragione di quella stessa esibizione. Impietoso il giudizio: «E la provocazione? Manco da lontano». Blasfemo, ancora, tirare in ballo David Bowie o addirittura Renato Zero anche solo per azzardare un pallido paragone. «E quel richiamo insensato alla tela di Giotto su San Francesco a cosa allude esattamente? Un invito neo pauperista a lui? A noi? Al mondo? Che è, insomma? Perché se non la si riempie di contenuti, anche rovesciati, una provocazione finisce per essere solo una bolsa mascherata triste, per far copertina e pubblicità».
Se Romano propone le sue legittime critiche – che, premetto, non condivido e mi sembrano parecchio ingenerose – il cicaleccio in salsa arcobaleno che ne consegue testimonia il degrado culturale e umano in cui è piombata una parte della nostra comunità. Ho letto cose – “che voi umani” e quelle cose lì – per cui Achille Lauro, contrariamente a Renato Zero et alii non ha il dono dell’eterosessualità (questo è il momento in cui scattano le risate registrate) per cui non si può permettere di scimmiottare “i grandi” del passato. Ancora, non gli si perdonano i fianchi, troppo abbondanti – e complimenti per il body shaming – e le dimensioni del pene, troppo piccolo. E la domanda, a questo punto, è: ma voi, che ne sapete? E soprattutto, importa davvero qualcosa o è funzionale all’interno di un’esibizione canora? Ma minchia (appunto).
Or bene, l’esibizione di Achille Lauro è una citazione. L’arte non è fatta solo di invenzioni originali, ma a volte si serve del riuso – chiamato citazione, appunto – da non confondere con la scopiazzatura (che invece è plagio). In un’altra immagine vediamo il cantante che toglie il mantello, mostrandosi quanto più nudo possibile. Sullo sfondo, alcuni alberi disegnati in stile giottesco, come ne La predica agli uccelli. Accanto a lui un lupo, chiaro riferimento alla vita del santo e a Gubbio. Ma per dare un contesto a questo tipo di rappresentazione, per niente sacra, ma che richiama la sacralità dell’essere (soprattutto all’essere non binario) bisogna leggere alcune sue dichiarazioni che chiariscono il pensiero dell’artista, esposto in un suo libro dal titolo Sono io Amleto.
Scrive infatti: «Cinquantenni disgustosi, maschi omofobi. Ho avuto a che fare per anni con ‘sta gente volgare per via dei miei giri. Sono cresciuto con ‘sto schifo. Anche gli ambienti trap mi suscitano un certo disagio: l’aria densa di finto testosterone, il linguaggio tribale costruito, anaffettivo nei confronti del femminile e in generale l’immagine di donna oggetto con cui sono cresciuto. Sono allergico ai modi maschili, ignoranti con cui sono cresciuto. Allora indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la confusione di generi è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni da cui poi si genera discriminazione e violenza. Sono fatto così mi metto quel che voglio e mi piace: la pelliccia, la pochette, gli occhiali glitterati sono da femmina? Allora sono una femmina. Tutto qui? Io voglio essere mortalmente contagiato dalla femminilità, che per me significa delicatezza, eleganza, candore. Ogni tanto qualcuno mi dice: ma che ti è successo? Io rispondo che sono diventato una signorina».
Achille Lauro, insomma, si spoglia dei “beni” di un contesto sociale – intriso di perbenismo, appunto – che ci vuole rappresentati in un certo modo. Con ruoli di genere ben definiti, con giochi per maschi e per femmine, con lavori per uomini e mansioni per donne. Col “papà che sistema l’armadio” con il cacciavite e “mamma che sistema l’armadio” – la frase è la stessa, ma assume valenze molto diverse se ci pensate bene – con il bucato stirato o le camicie da appendere. Achille Lauro, insomma, mette in scena, su quel palco, la distruzione di quella che definiremmo “mascolinità tossica”. Cosa che fa tremare i polsi ai maschi tossici di ogni ordine, grado e orientamento sessuale (e anche ad alcune donne, abituate a pensare che quello sia l’unico modo di essere maschi). Perché la irride. Se ne frega, appunto. E Me ne frego, che ok, è motto mussoliniano, diventa lo scrollarsi le spalle di fronte a tutto questo. Siamo sicuri che nell’Italia del “qui e ora” questi concetti siano talmente interiorizzati da rendere superfluo quel tipo di esibizione? Personalmente non credo.
L’esibizione di Achille Lauro, in altre parole, è servita a questo: a ricordarci che popolo di balordi siamo. È un atto di autodeterminazione. E tali atti non hanno mai bisogno di una giustificazione. Se – in senso ampio – la facciamo coincidere con la libertà, possiamo dire che la libertà è o non è tale. Certo, non può essere scevra di conseguenze e deve tener conto del rispetto altrui – ricordiamoci cosa diceva John Stuart Mills sull’unico limite che si può imporre ad essa – ma in quella performance possiamo ritrovare la libertà di espressione e di pensiero, elementi cari alla nostra democrazia. O almeno dovrebbero esserlo.
Adesso, che tutto ciò non lo ricordi qualche soggetto che vive il proprio privilegio di maschio eterosessuale, è un conto: poi magari spieghiamo a questo tipo di persone perché quel sistema sociale è una fregatura anche per loro. Che a non capirlo siano certi gay maschi – ma non solo, per la verità – fa comprendere quanta strada c’è ancora da fare: verso il rispetto delle scelte altrui, in primo luogo. Poi, va da sé, magari stiamo parlando di quelli a cui non piacciono le ostentazioni ai pride. Ma quella è polemica che si fa a partire da metà maggio. Per ora godiamoci Achille Lauro, le sue forme non del tutto perfette (non so voi, io ci metterei la firma per essere così, sarà che sto sempre a dieta…) e, soprattutto, le facce stralunate dei bacchettoni di turno. The show must go on, direbbe Freddy Mercury. E siamo solo alla prima serata di Sanremo. Chissà cos’altro accadrà.
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