Ho la sensazione che nella letteratura italiana contemporanea si stia tracciando un filone ibrido tra memoria, autobiografia e verità. E se fosse più di una sensazione, direi che la Marta Barone è, a diritto pieno, la più quotata tra le penne italiane. Leggere il suo Città Sommersa (Bompiani, 2020) significa ascoltare una polifonia di voci: la figlia, la scrittrice, la donna.
Un coro unilaterale legato da un accordo che sottende a tutto il libro: la memoria. Ho smesso di prendere appunti quando ho compreso che non stessi leggendo un romanzo di finzione, anche se l’autrice gioca magistralmente con la materia letteraria, pregna com’è di riferimenti (alcuni calviniani e metaletterari nascosti con sapienza) rispetto alla sua materia. Città sommersa è un’Atlantide della memoria, la vicenda incredibile e nascosta di un padre che smette di esserlo per diventare il protagonista di una storia realmente vissuta e in cui la figlia diventa, per un’ammirabile legge del contrario, la narratrice.
«Avrei voluto che questa storia me la raccontasse lui. Avrei voluto avere il tempo di sentirla. Ma in un certo senso sono consapevole che il libro esiste perché non c’è più l’uomo» (p.285). Marta Barone riesce in un’operazione di straordinario coinvolgimento narrativo, passando dalla sua città interiore ― sommersa, dalle ombre oblique e dai dolori intermittenti ― alla Storia conosciuta ― evidente e in rilievo dei fatti che costruiscono la trama di una generazione.
E poi bisogna dirlo. Lunga vita a chi scrive bene, e silenziosamente, tramando tra le frasi l’armonia e il ritmo del raccontare bene fatti del mondo e dolore intimo, con quella dignità coraggiosa di chi sa riconoscere alla letteratura la capacità di portare alla luce anche la polvere più pesante, conferendogli bellezza.
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