Un cognome come “Finocchio” può provocare facili ironie, è fin troppo semplice immaginarlo, qualora non trasformare in un vero e proprio inferno la vita di chi lo porta. Deve essere stata per una di queste ragioni che un uomo, a Bari, ne ha richiesto il cambio, vincendo la sua battaglia. La Prefettura del capoluogo pugliese riporta quanto segue in un documento ufficiale: «Vista l’istanza con la quale il signor Finocchio ha chiesto il cambio del proprio cognome […] a Fino perché considerato ridicolo e vergognoso e ritenuta l’istanza meritevole di considerazione in quanto le motivazioni addotte sono significative e la documentazione risulta adeguata» l’ufficio competente «decreta l’autorizzazione a pubblicare l’avviso».
Può anche risultare comprensibile il perché di una scelta del genere, la quale tuttavia è indicativa del grado di sofferenza di chi, pur di cancellare anni di onte e persecuzioni, è disposto a rinunciare a una parte della propria identità laddove il nome (inteso in senso lato) è qualificante del nostro senso di appartenenza. Aspetto, questo, che dimostra quanto il linguaggio possa essere determinante nella costruzione di felicità o del suo esatto opposto nella vita di un individuo.
Eppure, se da una parte c’è chi arriva a scelte estreme, dall’altra c’è chi rivendica il proprio orgoglio onomastico: «Non mi vergogno del mio cognome, ci sono nato e ci morirò» dichiara il vicepresidente del consiglio comunale di Bari, Pasquale Finocchio al quotidiano Il Gazzettino, aggiungendo «la prendo a ridere, d’altronde il manifesto con lo slogan ‘Finocchio: uno come te’, che uso in politica da 25 anni, ha fatto la mia fortuna proprio grazie all’autoironia».
Forse il politico in questione non è gay o non ha comunque problemi a vivere certi apparentamenti, ma di certo – a prescindere da quelle che possono essere speculazioni e ipotesi – dimostra che davvero una risata può seppellire pregiudizi e affermazioni poco felici.