Ha fatto molto rumore l’affermazione di Beatrice Venezi, la più giovane direttrice d’orchestra che ieri sul palco dell’Ariston ha presentato la categoria nuove proposte insieme ad Amadeus. Il conduttore ha detto, dopo averla annunciata: «Evitiamo polemiche che qui non si sa mai. Quando ci siamo incontrati a Sanremo Giovani lei mi ha chiesto di essere chiamata “direttore d’orchestra”». E la direttrice ha così chiosato: «Sì assolutamente, per me contano altre cose: la preparazione, il modo in cui si fanno le cose… La mia professione ha un nome che è direttore d’orchestra». Parole che hanno infiammato il dibattito, sui social e non solo.
Sono diverse le donne che hanno spiegato la loro posizione, nei confronti della dichiarazione di Beatrice Venezi. Posizioni di rispetto per la persona, ma di dissenso per le cose che ha detto. Parole, secondo scrittrici, autrici, linguiste, attiviste, ecc, che degradano i ruoli femminili nel mondo del lavoro e delle singole professioni. Ne abbiamo selezionate alcune, in modo da contribuire a creare dibattito sulla dichiarazione. Perché se da una parte c’è chi plaude al “direttore” d’orchestra, dall’altra c’è chi fa valere le proprie ragioni.
Secondo Vera Gheno, la posizione di Beatrice Venezi, «di volersi far chiamare direttore d’orchestra» ricorda «è nota da tempo, e non ho nulla da eccepire in merito: continuo a pensare che ognuna sia libera di definirsi nel modo che le piace di più. Per cui non sono affatto indignata. Non concependo la questione degli agentivi al femminile come una battaglia, non mi sento particolarmente ferita dalla scelta di Venezi; scelta che non avrebbe, peraltro, bisogno di nessuna motivazione o giustificazione».
Ma fa anche notare, Gheno: «C’è un aspetto che mi dispiace di più, da linguista quale sono, ed è il fatto che Venezi motivi la sua scelta con un’affermazione che non hanno fondamento scientifico: la sua frase “la professione ha un nome preciso” non ha senso, molto semplicemente; altrimenti avremmo solo professori, sarti, artisti, poeti, scrittori, cassieri, rettori, operai, infermieri, re eccetera. E invece abbiamo professoresse, sarte, artiste, poete(sse), scrittrici, cassiere, rettrici, operaie, regine e infermiere. Distinguerei quindi i due piani della faccenda: la libertà di definirsi come meglio si crede, la necessità di non fare affermazioni “linguapiattiste”».
«Provo una profonda tenerezza verso le donne che per sentirsi autorevoli e importanti pretendono che la loro professione venga declinata al maschile» scrive su Facebook la scrittrice Carolina Capria. «È sfiancante detestare il femminile nelle altre, è mortificante detestarlo in se stesse. Siamo state tutte Beatrice Venezi, abbiamo tutte pensato che i maschi facessero le cose davvero fighe e si divertissero, non come le femmine appresso a vestiti e quisquilie (il calcio e le auto, no, non erano interessi sciocchi come i nostri). Ci siamo sentite speciali nel prendere le distanze dalle altre, “io non sono come loro, mi diverto a stare con voi”. Ci siamo sentite in cima alla vetta quando lui ci ha detto “tu non sei come le altre”, riconoscendoci la superiorità che bramavamo».
Poi però, ricorda ancora Capria, qualcosa è cambiato: «Per alcune è arrivata una nuova consapevolezza. Ed è arrivata scavando a mani nude nel passato e nel presente alla ricerca di donne da ammirare. Io voglio essere loro, ho iniziato a pensare scoprendo donne eccezionali, io sono orgogliosa di essere una donna. E non perché quelle donne erano femminili, belle, esercitavano il potere dato loro dalla sensualità – caratteristiche di cui in molte vanno orgogliose. Ma perché ho iniziato a riconoscere nelle donne l’autorevolezza, la capacità di fare cose grandi. E ho iniziato a rispettarmi».
E intanto sui social tante persone stanno facendo girare le parole di Michela Murgia, che in Stai zitta ha scritto: «Un modo pratico di farvi sparire da un ruolo pubblico è quello di rifiutarsi di declinarlo secondo il vostro genere, sottintendendo che siete l’eccezione femminile di una norma maschile. Il rigetto della declinazione femminile ha alibi fantasiosi che studiose piú preparate di me hanno ampiamente demolito. Qui basta ribadire che il linguaggio è un’infrastruttura culturale che riproduce rapporti di potere».
Murgia ricorda che «l’imposizione del cosiddetto maschile universale è un modo per dire che state occupando abusivamente il posto di un uomo, ma che questa anomalia durerà talmente poco che non vale nemmeno la pena di trovare una parola esatta che la definisca. Alcune di queste donne, convinte che “i problemi siano ben altri”, hanno rinunciato alla pretesa di vedersi declinare la carica secondo il proprio genere, salvo poi verificare a loro spese che dietro il rifiuto di rispettare la grammatica si nascondeva (nemmeno troppo bene) il rifiuto di rispettare loro».
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