Sono quattro le Nomination agli Oscar ottenute da “Chiamami col tuo nome” (Call me by your name) di Luca Guadagnino: miglior film, miglior attore, migliore sceneggiatura non originale e miglior canzone. Un risultato inatteso per un film indipendente girato da un italiano, si vocifera prima di entrare in sala. O prima di informarsi sulla filmografia di un regista bistrattato e snobbato in Italia, ma acclamato negli Stati Uniti. Guadagnino è cresciuto, non è più il regista di “Melissa P.”. Ha trovato una strada ed una dimensione tutta sua, evocata ed estetizzante che cresce e si delinea nel passaggio da “Io sono l’amore” a “A bigger splash”, sino ad arrivare a “Call me by your name”, un tripudio di seducente e sinuosa leggiadria artistica.
Ogni estate il professor Pearlman e la sua famiglia ospitano uno studente statunitense nella loro villa di campagna, del nord Italia, per lavorare alla tesi di dottorato. Il 1983 è l’anno di Oliver, un ventiquattrenne bello ed intelligente che non passa di certo inosservato. Elio, il diciassettenne figlio dei Pearlman, dedito alla lettura e alla musica viene a poco a poco catturato dal fascino di Oliver. Attraverso la conoscenza e la convivenza, nascerà a poco a poco un reciproco sentimento che porterà i due ragazzi a desiderarsi e ad innamorarsi.
I personaggi di Guadagnino si studiano, ammiccano, insinuano il dubbio, conducono un logorante e seducente nascondino che aumenta e alimenta il desiderio incontenibile di contatto, di passione e di amore – non solo fisico. C’è una ricerca di perfezione stilistica, narrativa e visiva che il regista ottiene giocando su un’iconografia che spazia dall’arte greca alla moda anni Ottanta. La tensione dei muscoli delle statue, scolpite in posizione prossime allo scatto che genera il movimento, attraversa materia, tempo e spazio e si incanala nei muscoli tonici delle cosce e delle braccia dei protagonisti. Che si cercano, si chiamano e si uniscono e contorcono le une alle altre in prossimità dell’atto sessuale. L’elegante erotismo, intarsio di una dimensione bucolica e realista di paesaggi arcadici, si rincorre, stuzzica personaggi e pubblico sparendo e comparendo come un leitmotiv evanescente ed irraggiungibile da stanare.
La storia d’amore di Elio e Oliver corre su un binario parallelo a quella di Elio e Marzia; il diciassettenne impara ad abbandonare i libri e gli spartiti per dedicarsi alla scoperta della vita reale, dell’amore e delle proprie pulsioni. Non ci sono rimpianti, ostilità o avversità fisiche morali imposte da una società giudicante, l’omosessualità viene vissuta e trattata con la stessa naturalezza e lo stesso equilibrio con cui si affronta l’eterosessualità. Guadagnino racconta l’amore e l’eros in tutte le sue forme, senza nomi, senza incoerenze o sbavature, segue alla lettera le istruzioni di André Aciman (autore dell’omonimo romanzo da cui è tratto il film) e si lascia andare ad un racconto lineare e vero nella sua bellezza e nella sua dolorosa crudeltà.
Dimentichiamo la voracità de “La vie d’Adèle” e la brutalità di “Brokeback Mountain” e lasciamoci guidare dalla delicatezza e dall’erotismo sussurrato di quei gesti intimi ma sicuri capaci di confortare e di conferire il giusto coraggio per crescere ed affrontare la vita. La tranquilla, soave, ma non idilliaca, atmosfera finemente creata da Guadagnino e dal suo sceneggiatore James Ivory, non cavalca l’onda di nessuna militanza, ma lenisce ogni genere di ferita, è un collante che unisce e fonde sentimento e libertà personale e crea il prototipo di una, ancora utopica, società in cui nessun occhio o commento indiscreto può minacciare o scalfire un amore che, per quanto fuggevole possa essere, segna una svolta nella vita di giovani che, fino a quel momento, non hanno saputo guardarsi dentro.
Elio ed Oliver condividono una porzione di cammino di crescita insieme, si scoprono e si riscoprono nella loro autenticità e nella purezza delle loro pulsioni. Sperimentano e limano le loro attitudini e conoscono la precaria perfezione di un amore vero e sincero, sentito e desiderato, accaduto e non programmato.
In un mondo di adolescenti e post adolescenti, le figure adulte di contorno si mostrano comprensive facilitatrici di un rapporto che va delineandosi e che raggiungerà la sua completa definizione in quel preciso istante che divide la superficiale avventatezza dalla meditata cautezza, si fanno guide silenziose ed invisibili ancore di salvezza capaci di intervenire solo nel momento del reale bisogno.
“Call me by your name” non vincerà l’Oscar come miglior film, non in un anno in cui a Hollywood saranno le donne a prevalere e la loro necessità di giustizia. Ma segnerà, si spera, l’inizio di un sentiero in discesa, dove i film a tematica LGBT potranno essere considerati nella loro completezza e complessità senza dover, per forza, venir incatenati da un’etichetta.
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