Abbiamo ricevuto la richiesta di pubblicazione di una storia di bullismo omofobico e di body shaming. L’autore del post, di cui conosciamo l’identità, ci chiede tuttavia di mantenerla privata perché la sua testimonianza non venga confusa con la ricerca di visibilità. Pubblichiamo perciò il racconto completo, nel rispetto del suo desiderio di privacy.
Quando ero piccolo, ero grasso. Ragione questa – allora come adesso – che non ti rendeva di certo il fico della scuola. Per niente. Ragione per cui cominciai a conoscere una forma particolarmente fastidiosa di bullismo, oggi nota col termine di body shaming. Ovvero, quel senso di vergogna e di disagio per come sei fuori, per le tue forme, sempre “troppe”, sempre fuori posto. E quando vedi che anche la prof di italiano ti prende per il culo, chiamandoti “vacca”, allora capisci che qualcosa non va proprio per il verso giusto. Anche se hai poco più di dieci anni e non sei nemmeno il più sveglio della tua famiglia.
Poi a un certo punto della mia vita, viene fuori anche questa cosa che non ti piace solo la crema al cioccolato, il gelato, i dolci, il salato, la pizza e qualsiasi altra cosa contenga colesterolo e ciccia; no, per farla davvero completa, a una certa, scopri anche che ti piacciono anche i maschi della tua classe. Adesso, per carità, le avvisaglie c’erano tutte. Alle elementari ti chiamavano “femmina” perché a te, del calcio, non te ne fregava niente (che poi è la versione speculare di quello che succede alle bambine se, invece, a calcio ci vogliono giocare) e non eri proprio tutto questo tripudio di peli e virilità, sin da bambino. Ma alla fine, alle elementari siamo tutti un po’ scemi, no?
Fino a quando non arrivò il momento dello spartiacque, lo squarcio nel velo di Maia, il morso al frutto dell’albero del bene e del male e qualche altro mito a piacere: tutto questo per dirvi che un bel giorno la fisicità maschile divenne parte integrante del mio immaginario (erotico) e la masturbazione unica mia fonte di sfogo. Insomma, capii di essere gay. E, cosa ancora più divertente, lo compresero anche i miei compagni. Divertente per loro, naturalmente. Cominciò, così, il mio piccolo, continuo inferno personale. Dagli undici ai ventidue anni, grosso modo.
Fu lì che compresi che il bullismo è anche doloroso.
Furono anni in cui, per fare qualche esempio raccattato qua e là nella memoria, funzionava così: una volta scrissi il mio nome sul diario, con lo stabilo boss giallo. Una compagna di classe lo vide, prese il diario, lo portò in mezzo a un gruppetto di compagni e disse “i froci si evidenziano subito”. Aveva dodici anni. Però, per dire, complimenti per la prontezza della battuta, io ci sarei riuscito sono un decennio dopo. Ed è una. Metteteci anche quando tuo padre ti mandava a comprare il latte sotto casa e tu dovevi fare il giro largo dell’isolato, perché sulla viuzza che dovevi prendere tu c’era anche il bulletto di quartiere che, ovviamente, si prendeva anche il suo momento di gloria. E lì si andava direttamente con le legnate, sempre perché ero finocchio. Un altro esempio? Al liceo, ero al bar: mi approccio a due compagni nuovi, magari nella nuova scuola la mia fama non è ancora arrivata. Uno dei due mi guarda e mi dice «vattene, non voglio che ci vedano insieme, poi pensano che sono frocio come te». E addio sogni di gloria.
Bene, prendete tutta questa simpatia e moltiplicatela per tre. Scuola, casa, muretto del palazzo. A scuola e nel cortile, perché se non erano insulti erano botte. A casa perché dovevi fingere che tutto questo non accadesse. Perché poi come glielo spieghi a tuo padre, vecchio stampo, che ha un figlio gay? Bene, fatto questo, moltiplica quel numero per quasi tutti i giorni dell’anno. E quindi per undici-dodici anni. Da questo semplice calcolo viene fuori la mia vita. Quello che sono. Con tutte le conseguenze del caso.
Intendiamoci, io adesso non sono di quelli che si guardano allo specchio con lo sguardo ferito e si chiedono “ma perché tutte a me?”, ma – per dire – quando passeggio per strada e vedo un gruppetto di gente che ride, io penso che ridono di me. È una cosa velocissima, un fantasma più silenzioso di uno spiffero gelido in una notte d’inverno. Ma c’è, ed è lì. È un demone che ti guarda e aspetta che tu reagisca.
O ancora, quando in chat conosco qualcuno e mi dice “sei fico, voglio conoscerti”, quella voce interiore mi dice “no, gli farai schifo appena ti conoscerà”. E quindi ti conosce, vede quell’ombra di te e alla fine ci crede sul serio, che sei uno schifo. Sparendo. E magari non succede con quello che ti scopi tanto per, ma con chi ti piacerebbe conoscere realmente. Per vivere e non solo per provare ad andare avanti. Ma niente, le cicatrici spaventano troppo. E rischi di rimanere solo, alla fine.
Perché quando per tutta la vita ti sei sentito un mostro, poi una parte di te non è che ci crede, è proprio quella parte lì. E non puoi farci niente. È un pezzo di te come il taglio dell’appendicite, la bruciatura che ti sei fatto cadendo con la vespa, l’osso rotto rimarginato male che ti fa la gobba sul naso. Cose così. Il bullismo, in pratica, ha lo stesso sguardo di chi, anni prima, ti aspettava sotto casa o vicino al tuo banco per ricordarti quanto fosse sbagliato essere quello che sei.
Racconto la mia storia, tuttavia, non certo perché voglio dargliela vinta a quei fantasmi, ma per far capire quanto possano aver ferito nel passato e quanto possano far danno anche nel presente. Da un po’ frequento un gruppo di psicoterapia e sapere che c’è anche altra gente che ha lottato col suo dolore riesce a ridimensionare il tuo, a portelo sotto la giusta luce. Anche se forse le cicatrici e le bruciature non le potrai guarire mai più e farai scappare chi le guarda, anche solo per errore. Però una cosa l’ho scoperta: mangiavo tanto perché era un modo che avevo di prendere possesso, fisicamente, del mondo. Poi, per fortuna, ho cambiato strategia.
Per cui, quando prendete in giro una persona perché non è come voi la vorreste – troppo grassa, troppo bassa, troppo poco eterosessuale, troppo “altro” rispetto a quello che pensate sia l’unica normalità possibile – cercate di capire che è come spegnere una sigaretta sulla pelle della sua anima. E un’altra ancora, e così via. E io sono fortunato, per carità. Sono vivo, sono pure belloccio e se me le fai girare per benino ti arriva anche un ceffone, che poi a una certa ti rompi il cazzo e finisci la pazienza. Ma non tutti hanno la forza di sopportare tutto questo. E qualcuno a volte muore. Mentre a qualcun altro si rovina la vita per sempre. E quindi, forse, se qualcuno si è riconosciuto in uno qualsiasi degli episodi qui raccontati, gli do l’unico consiglio che mi viene in mente: è ora di smettere. Subito.
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