Tre stati in meno di ventiquattro ore, dal tono sarcastico e derisorio nei confronti di Elliot Page e del suo coming out. È quello che abbiamo potuto leggere tra il primo dicembre e ieri pomeriggio, sul profilo pubblico di Arcilesbica nazionale. «Ultimora lercia» riporta la prima delle tre condivisioni, pubblicata alle 22:36, l’1 dicembre: «Colpitu dal coming out di Elliot Page, alcun* attivist@ di ArciLesbica prendono coscienzo di sé. Cristino, Stello, Beatore, Luiso, Lucìo, Saro, Flavìo ora sono felici ma soffrono: “tutto pur di non essere donne”». E, purtroppo, la cosa non si è fermata qui.
Una “comicità” imbarazzante
Forse galvanizzate dalla grande popolarità di uno stato nel migliore dei casi strampalato (a parere di chi scrive) che ha sfiorato le 280 reaction, molte delle quali però negative – per non parlare dei commenti di biasimo sulla pagina – la SMM di ArciLesbica ha pensato di ripetersi, con altre due condivisioni il 2 dicembre. La prima, alle 16:09 del 2 dicembre, che recitava: «I nostri presidenti Mario-Cristino salutano solidali gli attori Elliot (perché no?)». Quindi, quella delle 17:04 del 2 dicembre, che riportava un più evocativo “Elliot e le storie a tesi”. Insomma, una forza argomentativa da scuola primaria fatta male. Ed una vis comica da rendere un gigante del settore un Martufello qualunque nei momenti più bui della sua carriera, o di elevare al rango di letteratura comico-realistica una qualsivoglia gag di Striscia la notizia. In una parola soltanto: imbarazzante.
Dinamiche da branco
Ora, non voglio entrare nel solito logoro dibattito su Arcilesbica. Sia perché non aggiungerei nulla di nuovo a ciò che – proprio dentro ai movimenti femministi – si dice e si pensa di certe boutade e di chi le partorisce: e cioè, che non appartengono al femminismo. Sia perché rischierei di finire nelle maglie larghissime di quel mansplaining e di quella misoginia di cui si viene accusati con estrema semplicità, a certe latitudini. E Dio non voglia. Mi faceva riflettere invece un altro aspetto: la dinamica da branco che pare emergere in condivisioni come questa. Elliot Page, sembra indossare la colpa di aver rinunciato alla femminilità e su questo viene attaccato. Su tale aspetto, nello specifico, voglio soffermarmi. Parlando di me e del mio vissuto più lontano.
Tra bullismo e “tradimento di genere”
Per chi si intende di bullismo, fosse non altro perché lo ha vissuto sulla propria pelle, sa che tale dinamica è molto semplice: c’è un branco, da una parte, che fa corpo comune contro un singolo (il “frocio”, lo “sfigato” e via dicendo) o un gruppo ristretto di soggetti che condividono alcune caratteristiche comuni (si pensi alle persone immigrate, rom, ecc). Tornando alla mia esperienza personale, quando ero adolescente venivo posto al centro di una gogna – per fortuna ai tempi non c’erano il web e nemmeno i social – con l’accusa, più o meno implicita, di aver rinunciato alla mia virilità. Nella serie tv The Handmaid’s Tale questo “crimine” ha un nome specifico: tradimento di genere.
L’inversione del genere grammaticale
Il linguaggio utilizzato dai miei compagni per ridicolizzarmi e di espormi al pubblico ludibrio, prevedeva l’inversione del genere grammaticale di nomi e aggettivi. Per cui venivo appellato con epiteti al femminile, per identificare la colpa di aver rinunciato – in quanto di sesso maschile e presumibilmente gay – al mio essere maschio. Ciò è cominciato, appunto, sin dalle scuole elementari. Più avanti, in alternativa, all’inversione di genere (per cui io ero femmina) si integrava lo “scheccamento”. Ovvero, si imitavano movenze e atteggiamenti da loro associati al mondo dei gay. Non credo ci sia bisogno di dire che ciò avveniva principalmente tra maschi. Eterosessuali e sessisti, se vogliamo essere anche pignoli.
Prendere le distanze dal “tradimento”
Le tre condivisioni di Arcilesbica prese in esame sembrano funzionare in modo molto simile. Le attiviste della più antica associazione lesbo-femminista italiana si sentono minacciate dal coming out di Elliot Page come persona transgender: «tutto pur di non essere donne» chiosano infatti. E, quindi, maschilizzano i loro nomi, attaccando per altro il linguaggio inclusivo, “ironizzando” su asterisco e schwa. Certo, si può opporre che nel caso di Page sono i nomi delle attiviste ad aver subito un’inversione di genere. Ma questo avviene per sottolineare il pericolo che paventano: la cancellazione delle donne. Se poi vogliamo passare dal paradosso alla parodia (di se stesse e non solo), tale atteggiamento mi sembra speculare a quello dei miei compagni di classe che “scheccavano” vistosamente per prendere le distanze dal presunto “tradimento di genere”.
Elliot Page e l’identità fragile
Adesso, un’identità che ha bisogno della demolizione delle identità altrui si qualifica come debole e inconsistente. Lo diciamo spesso agli omofobi quando attaccano le nostre relazioni e il nostro modo di vivere il corpo, per magnificare l’eterosessualità come unica scelta possibile. Mi chiedo, a questo punto, se non si possa avanzare qualche dubbio sulla solidità della percezione di sé da parte di Cristino, Beatore e Flavio (sì, si scrive senza accento sulla -i-) e il resto della poco allegra brigata. Ah, a proposito della brigata: i più malevoli hanno pure lasciato subodorare l’idea che lə attivistə citatu coincidano con il totale delle iscritte ad Arcilesbica. Che cosa brutta la maldicenza, signora mia…
Purché se ne parli, ma come?
In conclusione: quando una persona con grande visibilità – come un divo del cinema e della TV – consegna al pubblico confessioni intime e profonde quali un coming out, è inevitabile che poi se ne parli. E se vogliamo è anche giusto. Svelarsi ad un pubblico quanto più vasto significa volere che quell’atto sia oggetto di dibattito. Anche perché – ed è lo scopo dei processi di disvelamento – ciò è funzionale a fornire un esempio positivo. A tracciare la strada per chi verrà dopo. Il punto, dunque, non è che se ne ne parli. Il problema è, semmai, come se ne parla. Personalmente, non mi sembra che quelle tre condivisioni vadano oltre una dinamica da branco e conseguente ridicolizzazione. Qualcosa, insomma, che già risulta difficile da tollerare in fase adolescenziale. Figuriamoci in età adulta.