Le associazioni, come si definiscono, “non riconosciute” possono darsi le regole che vogliono? Lo statuto, in sostanza, può prevedere qualsiasi meccanismo che regoli la vita dell’associazione stessa senza dover rispettare principi stabiliti da codici, leggi e, in ultimo, dalla Costituzione? La risposta è no. O almeno questo è il risultato dell’analisi pubblicata dal giudice Marco Gattuso sul sito Articolo 29 poche ore fa.
La riflessione, per ammissione dello stesso Gattuso, nasce dalle recenti polemiche sull’esito del congresso di ArciLesbica. Com’è noto, oltre ad una serie di critiche politiche, espresse da singole attiviste e da intere associazioni in questi giorni, alcune si concentrano sul meccanismo di voto che ha portato la mozione della segreteria uscente a vincere il congresso. Una questione tecnica, probabilmente, che però potrebbe avere risvolti politici.
Non tutto è chiaro e noto
Nella sua analisi, Gattuso riconosce che non tutto è noto di come si sia svolto il congresso e, quindi, potrebbero esserci elementi “che possono rivelarsi dirimenti” e che al momento nessuno conosce. Ad esempio, non sono pubblici “né i verbali del congresso né le modalità di composizione”. Quello che si sa, riferito da fonti interne all’associazione e da fonti giornalistiche, è che ogni delegata al congresso è stata eletta da 50 socie, che ogni componente degli organi dirigenti poteva esprimere un voto a testa (segreteria, collegio delle revisore e garanti, per un totale, pare, di 13 voti sui 41 complessivi) e che la nuova segreteria è stata eletta con 21 voti a favore, 16 contrari e 4 astenute.
Le leggi e la Costituzione, sopra gli statuti
Sebbene “non riconosciute” e non a fini di lucro, spiega Gattuso, le associazioni non sono affatto “ordinamenti giuridici separati nei quali lo Stato non può intromettersi” perché “la Costituzione repubblicana protegge i diritti dell’individuo all’interno dell’associazione e impone di riconoscere «limiti alle prerogative dell’organo amministrativo» i quali valgono «ad impedire l’instaurazione, ad opera dello statuto, di una organizzazione autoritaria»”.
Insomma, gli statuti, le delibere e tutti gli atti delle associazioni non riconosciute devono comunque rispondere alla legge e rispettare il principio di democraticità che ha le sue radici nella Costituzione.
Il principio di uguaglianza e di democraticità
“In forza di tale principio gli associati debbono concorrere paritariamente al governo dell’associazione stessa, nel rispetto, all’interno del gruppo, del principio di
uguaglianza – scrive il giudice -. Per conseguenza, ad esempio, le delibere dell’assemblea debbono essere adottate nel rispetto del principio per cui a ogni associato e associata deve essere garantito il diritto ad un voto e a non più di un voto”.
Il principio di uguaglianza, secondo la giurisprudenza, è garantito anche dal sistema delle deleghe. Perché più è grande e diffusa sul territorio un’associazione, più è materialmente impossibile riunire tutte le socie e i soci per votare le delibere o rinnovare le cariche. Si ricorre, quindi, alle deleghe: un socio o una socia vengono scelti da un numero stabilito di altri tesserati per rappresentarli nell’assemblea (o nel congresso). Fin qui tutto normale, per chi ha un minimo di dimestichezza con la vita associativa.
I voti singoli
Alcune associazioni prevedono che, sebbene nelle assemblee votino solo soci e socie delegate, alcune personalità abbiano diritto di voto in rappresentanza solo di se stessi. E’ il caso, ad esempio, di ex presidenti o anche di singoli rappresentanti della dirigenza in carica. Ma anche in questo caso, il limite è che si garantisca il principio di democraticità. Spiega ancora Gattuso che se lo statuto prevede che abbiano diritto di voto tutti i componenti della dirigenza “in un numero tale da rendere addirittura possibile che possano essere determinanti per la loro stessa rielezione”, questo “provocherebbe un vero e proprio corto circuito democratico, posto che un gruppo dirigente, una volta eletto, potrebbe governare l’associazione sine die (cioè senza limiti di tempo, ndr), bastando l’appoggio di una mera minoranza degli associati”. La conseguenza sarebbe “mantenere il controllo e la guida dell’associazione contro la volontà, reiteratamente manifestata, della stessa maggioranza degli associati e delle associate”.
Cosa c’entra questo con ArciLesbica?
E’ quello che è successo al congresso di ArciLesbica? I voti assegnati di diritto alla dirigenza sono stati determinanti per la vittoria della mozione presentata dai vertici uscenti? E’ una cosa che solo le socie dell’associazione possono verificare con certezza dato che, appunto, non tutti gli atti sono stati resi pubblici.
Se così fosse, seguendo l’analisi di Gattuso, qualsiasi decisione presa con questo meccanismo (anche l’elezione dei vertici) non sarebbe valida e si potrebbe, di conseguenza, impugnare davanti ad un giudice. Insomma, non importa se i numeri assegnano la maggioranza a questo o quel documento se quei numeri sono viziati da un metodo antidemocratico. A questo punto, una socia che abbia votato la mozione perdente, potrebbe chiedere l’intervento della magistratura che, in pochi mesi, azzererebbe tutto, costringendo l’associazione a darsi regole più democratiche. Tutto da rifare, quindi?