Undici giorni di cinema, danza, arte, teatro e incontri. È cominciato ieri 28 aprile a Bergamo, e durerà sino all’8 maggio, il festival Orlando: che sotto il nome del multiforme protagonista di Virginia Woolf dà forma al cambiamento attraverso le arti performative, nella nona edizione di una rassegna che partendo dalle tematiche di genere e legate alla comunità LGBTQ+ vuole trasformarsi in un luogo di riflessione sul corpo, sulle identità e sulle relazioni.
Orlando, un calendario ricco di eventi
Qui il calendario intero dell’evento in tutta la sua varietà, da Irene Serini in Abracadabra, incantesimi di Mario Mieli a Distant Place, un film sul difficile equilibrio tra essere padre ed Amare un uomo in Corea del Sud. Ma appena prima dell’inizio del festival, promosso da Associazione Culturale Immaginare Orlando APS e Laboratorio 80, abbiamo dialogato con il direttore artistico Mauro Danesi, per scoprire meglio un festival che è piuttosto una parte di un progetto ricco e coraggioso, che si pone l’ambizioso obiettivo di riflettere “sul significato del cambiamento, sul privilegio e sulla responsabilità che ogni persona ha nel contribuire a una rivoluzione culturale”.
Un’ottica internazionale
L’ottica del festival sembra essere – coerentemente con lo sviluppo recente del movimento LGBTQ+ – intersezionale: un festival a tematica ma anche molto di più…
L’intersezionalità è al centro di tutto il lavoro – lungo – che facciamo e che trova nel Festival il suo esito. Non è un concetto semplice e ce ne siamo accorti. È un concetto noto all’interno del movimento LGBT+ e transfemminista ma, nei fatti, non altrettanto frequentato: per questo per noi è fondamentale. Non è semplice raccontarlo alle persone con cui ci rapportiamo, ma spesso neanche con le realtà militanti, che a volte non comprendono l’urgenza, dal nostro punto di vista, di far incontrare temi differenti (o solo apparentemente tali). Il nostro festival vuole invece occuparsi dei ponti, degli aspetti comuni di questi temi. Il concetto, per noi, è semplice: tutto ciò che va a erodere la norma si muove nella stessa direzione. Tutte le sfide sociali si possono incontrare, molte identità sono, spesso, sovrapponibili nella soggettività di una stessa persona o di una stessa comunità. Per questo, l’intersezionalità è il punto d’arrivo che vogliamo raggiungere.
Orlando, tra forme d’arte e stili
Orlando si articola in modo molto composito, tra forme d’arte e stili: cosa ti ha guidato e come hai scelto i protagonisti?
Il festival è multidisciplinare dal suo primo anno, perché siamo sempre stati convinti che una pluralità di temi non potesse essere approcciata se non nella varietà di strumenti e forme. L’obiettivo, fin da subito, è stato avvicinare un pubblico eterogeneo, anche chi non si fosse mai approcciato a temi LGBTQ. A guidarci è sempre l’intenzione di destrutturare le norme preesistenti, per dimostrare che ci sono altre possibilità. Ci sono artiste e artisti che condividono questo approccio e per questi ci hanno fatto da guida e sono tornate spesso, ma non solo. La ricerca avviene anche visitando festival internazionali e nazionali che abbiano questo approccio e che stimiamo. Ovviamente penso a Gender Bender, ma anche ad altri festival in giro per il mondo in cui scoprire anche nuovi artisti che possano aprirci nuovi sguardi.
Il rapporto con la città
Il festival è arrivato alla nona edizione, e abbraccia diversi luoghi – anche non puramente teatrali – qual è il rapporto del festival con la città e lo sviluppo che ha avuto nel tempo?
Il rapporto con la città non è sempre stato semplice. Nove anni fa eravamo un gruppo di amici e amiche che pensava mancasse uno spazio dove parlare di tematiche, storie e rappresentazioni che non c’erano sul territorio. Siamo partiti dalle storie riguardanti identità di genere e orientamento sessuale, e non è stato facile, perché mancava conoscenze e visibilità, in una città in cui un forte retaggio cattolico li rendeva argomenti tabù. La risposta entusiastica ci ha restituito la correttezza delle nostre percezioni, ma c’è stato anche un irrigidimento da parte di alcuni finanziatori. Il nostro lavoro, quindi, negli anni, è stato anche dimostrare, creando dialogo, che parlare di tematiche di genere, identità, corpo, riguarda tutte e tutti. Il rapporto con la città, pur nelle sue complessità, nel tempo è cambiando, al punto che lo scorso anno il Comune di Bergamo ci ha riconosciuto una benemerenza civica. Un rapporto in continua evoluzione, le cui difficoltà ci sono servite a dimostrare la necessità del nostro lavoro. Era necessario portare qui queste rappresentazioni, proprio dove l’immaginario collettivo non le ha ancora fatte proprie a pieno.
Il valore del festival
In un momento come questo, in cui le urgenze dell’attualità sono impellenti, qual è il valore di un festival come questo?
I festival sono sempre preziosi, perché condensano in spazi e tempi definiti la possibilità di creare riflessione attraverso l’incontro. Sono fucine fondamentali, anche di benessere, di sviluppo di desiderio ma soprattutto di pensiero. Soprattutto in tempi ricchi di complessità, sono quindi di fondamentale stimolo. Sogno quindi che Orlando sia, per il suo pubblico, proprio questo. E non vedo l’ora di andare ad altri festival come questo per ricaricare le batterie, liberare pensieri incancreniti e cercare soluzione a quelli problematici!
Il tema del corpo
Anche il vostro festival riporta al centro il tema del corpo, programmaticamente, oltre che come strumento performativo. Trovi che sia – in questo momento storico – un “luogo” di riflessione importante, e in che senso viene indagato dagli artisti che hai selezionato?
Il corpo per Orlando è sempre stato centrale, oggi mi sembra che lo sia ancora di più. Perché veniamo da due anni di assenza del corpo, o di iperpresenza di un corpo solo medicalizzato, e di rimozione invece del corpo come spazio di contatto e relazione, relegato a spazi privati. È una difficoltà che, personalmente, sentiamo tutti. Il festival quindi cerca di indagare una nuova intimità, anche attraverso artiste e artisti che lo fanno da sempre. Penso a Chiara Bersani, che in questi anni ha parlato spesso di corpo politico. A Bergamo porta un suo progetto del 2017, Goodnight peeping Tom, che oggi prende un valore ancora più forte, perché vede in uno spazio condiviso cinque spettatori e quattro performer che devono negoziare in modo sottile e delicato la propria convivenza. Oppure penso a Silvia Gribaudi e alla sua danza, che col suo umorismo sagace taglia la realtà per mostrarne le radici. La riflessione di Silvia è acuta, e svela i pregiudizi che leghiamo al corpo, al genere o all’età. Il corpo è centrale anche nella sezione dei film, dove sembra non esserci. Condividere un oggetto d’arte cinematografica è già un gesto politico, nel tempo dello streaming. Lo sono gli incontri, lo sono i laboratori, come quello di Elisabetta Consonni, artista che amiamo da anni, che in Plutone esploso propone a un pubblico trasversale la sua pratica di danza, legata alle dinamiche che si scatenano nello stare insieme, nell’essere una collettività.
Lo spazio destinato ai bambini
C’è uno spazio destinato ai bambini. ancora adesso oggetto di scontro sulle tematiche di genere. Quali obiettivi si pone Orlando, nel contesto specifico in cui lavora?
Orlando è dal primo anno anche uno spazio di progetti formativi. Sapevamo che non avremmo cambiato il territorio con un bel festival sfavillante, ma coltivando con costanza il dialogo con le nuove generazioni. I nostri percorsi formativi, a differenza del festival, sono annuali, e partono sempre da un “oggetto artistico” che dialoga con i ragazzi. Negli anni ci siamo avvicinati anche all’infanzia, perché è quello il momento in cui si è suscettibili anche a stereotipi pervasivi. Vogliamo lavorare con i bambini (e gli adulti di riferimento) per liberare le menti, per non ingabbiare le possibilità già presenti e giocare insieme per evitare la creazione di stereotipi. I nostri sono progetti sulle fiabe, sulla narrazione, che raccontano storie in cui è protagonista quella pluralità spesso ridotta dalle storie che siamo abituati a incontrare. È un lavoro lento, costante, ma importante, Quest’anno ospitiamo anche un film per i più piccoli, Calamity, un film d’animazione su Calamity Jane. Una storia femminista che spesso manca in uno spazio, come quello degli eroi, pieno di gabbie di genere stereotipate.
Tra rappresentazione artistica e discriminazione
Siamo dentro un paradosso: la rappresentazione (artistica soprattutto) esiste, ma la discriminazione e l’omofobia sono una realtà che anzi sembra trovare recrudescenze sempre più violente. Qual è la funzione, oggi, di un festival come questo?
Il report ILLGA degli ultimi anni non è positivo, l’Italia è retrocessa nella classifica che misura la qualità della vita della comunità. C’è un ritorno indietro, in Europa e nel mondo. Questo ci conferma la necessità di spazi come il nostro, ma ci spinge anche a interrogarci su quali siano le forme che questo tipo di progetti devono prendere. I tempi cambiano, le sfide cambiano, e forse devono cambiare anche le forme. Il prossimo anno per noi sarà il decimo, Bergamo e Brescia saranno Capitali italiana della Cultura, e questa visibilità ci impone un impegno per trovare anche nuove forme, nuove alleanze, per lavorare meglio. Perché ci sia davvero una ricaduta sociale concreta e i festival facciano di chi li fruisce quella massa critica e resistente che può dar forma a uno sviluppo positivo della società.
Appuntamenti da non perdere
Il festival è imperdibile per intero, ma quali sono gli appuntamenti che sei più orgoglioso?
È difficile! Siamo una equipe plurale, e in alcuni casi si tratta dello sviluppo di dialoghi che durano da più di un anno. Con Chiara Bersani, ad esempio, dialoghiamo sul lavoro che porta quest’anno dal 2017, anche se nel frattempo ne ha portati da noi altri. Sono felice di questa edizione, perché alcuni progetti li aspettavamo da tempo. Ad esempio Cities By Night di Valentina Medda viene fruito come una esposizione ma nasce da un progetto partecipativo svolto nella città di Bergamo ed è parte di un progetto europeo di cui siamo capofila. Avrà una tappa in Kosovo e in Norvegia, e reifica come le percezioni che abbiamo di uno stesso oggetto, in questo caso di una città, sono differenti perché partono dai nostri posizionamenti, in cui c’è anche un discorso politico. Le rappresentazioni quindi possono essere cambiate, possono evolvere in modo più equo. È un progetto sottile ma dirompente. Siamo felici di avere Genderation, il secondo film sulla comunità queer di San Francisco di Monica Treut, rappresentante storica della cinematografia queer che sarà nostra ospite. Bersani e Gribaudi ci hanno accompagnato spesso negli anni, come due chiavi fondamentali di comprensione. Molto differenti, ma ugualmente dirompenti e utili per scompaginare le gabbie.