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Evelyn Hooker: la donna che per prima dimostrò che l’omosessualità non è una malattia

Un eroe è un normale essere umano
che fa la migliore delle cose nella peggiore delle circostanze (Joseph Campbell)

L’omosessualità non ha mai avuto una vita facile, attraversando periodi di accettazione e periodi di patologizzazione. In particolare, questo secondo aspetto “malato” dell’omosessualità fonda le sue radici nel medioevo, quando veniva definita “vizio morale”, per poi essere inquadrata come “disturbo mentale” a seguito anche all’opera di von Krafft-Ebing, “Psychopatia Sexualis”, di fine Ottocento (1886), dove veniva affiancata a pedofilia e sadomasochismo. Anche in ambito psichiatrico rimase a lungo presente sia nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM III) che nella classificazione internazionale delle malattie ICD-10. Oggi sappiamo, invece, che è una variante naturale del comportamento sessuale e rientra tra gli orientamenti sessuali possibili. Ma come si è arrivati a poter dire questo?

Lo dobbiamo ad Evelyn Hooker, psicologa statunitense (1907-1996), che è stata tra le figure più influenti nel movimento LGBT in quanto provò, usando il metodo scientifico, a convincere la popolazione americana che l’omosessualità fosse proprio una “variante normale” del comportamento sessuale. Il suo studio “L’adattamento psicologico del maschio omosessuale dichiarato” pubblicato nel 1957 sulla rivista scientifica “Journal of projective techniques” (XXI 1957, pp. 18-31) è la fonte scientifica più frequentemente citata quando si discute della depatologizzazione dell’omosessualità.

La studiosa, spinta da curiosità scientifica e da alcuni suoi amici gay che le chiedevano di investigare circa l’omosessualità, decise di iniziare una ricerca per verificare l’ipotesi che non vi fossero differenze tra maschi omosessuali ed eterosessuali. Dimostrare questo avrebbe permesso di asserire che gli omosessuali non fossero malati come si pensava ed iniziare quel lungo iter che ha portato all’eliminazione dell’omosessualità dai disturbi mentali.

Fino ad allora gli unici studi sull’omosessualità riguardavano modelli animali e nessuno si era spinto ad allargare la ricerca in ambito clinico, ovvero su soggetti umani. Hooker ricevette finanziamenti per la sua ricerca dal National Institute of Mental Health (NIMH) e nel 1953 vennero reclutati sessanta soggetti, considerati mentalmente sani e divisi in due gruppi in base all’orientamento sessuale esclusivamente eterosessuale o esclusivamente omosessuale.

Successivamente vennero loro somministrati alcuni test validati, in particolare il test di Rorschach, il test di appercezione tematica (TAT) e il test Make-a-Picture Story (MAPS). Tutti e tre sono test proiettivi, ovvero progettati per misurare dimensioni di personalità, stabilità emotiva e la coerenza di pensiero. Attualmente questi test vengono utilizzati maggiormente nell’ambito clinico-diagnostico e nell’ambito forense perché nell’ambito sperimentale-scientifico è sempre bene utilizzare test quantitativi o una combinazione tra gli uni e gli altri, per dei risultati sicuramente più standardizzati e replicabili. Dopo aver esaminato i dati, Hooker trovò che non si potessero distinguere i test completati dagli uomini omosessuali da quelli completati dagli eterosessuali dimostrando così che l’orientamento sessuale non generasse differenze tra omosessuali ed eterosessuali.

Nonostante alcuni limiti della ricerca, Evelyn Hooker ha tentato, con un approccio rigoroso, di fare affermazioni che hanno fatto non solo da “apri pista” nei testi di psicologia, ma hanno fornito anche una base scientifica per le decisioni più importanti in casi giudiziari come i divieti di lavoro ad omosessuali in alcune agenzie statali e locali come scuole o dipartimenti di polizia (è importante ricordare che il test di Rorschach è tutt’oggi utilizzato in ambito forense – peritale, anche se definito “proiettivo”).

Lo studio di Hooker e la teoria di Kinsey sull’orientamento sessuale (1948) divennero le “armi” più potenti e con solida base scientifica per poter dimostrare che gli eterosessuali e gli omosessuali sono uguali. Eppure l’omosessualità non sarebbe stata tolta dai manuali dei disturbi mentali così velocemente. Com’è noto, infatti, l’Associazione degli Psichiatri Americani (APA) definì l’omosessualità non più malattia solo nel 1973 mentre sul DSM III (1980) veniva considerata disturbo solo se egodistonica, ovvero quando tale “condizione” avrebbe creato difficoltà personali e sociali all’individuo, fino alla completa esclusione dalla categoria di “patologie” avvenuta con la seconda versione rivista del DSM III (1987). Sarà solo il 17 magio del 1990 che l’OMS dichiarerà ufficialmente l’omosessualità “una variante naturale del comportamento umano”.

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