Avevo già parlato dell’ondata di indignazione che la nomina di una ragazza trans a funzionaria femminile nel Labour Party inglese aveva suscitato dentro certo femminismo, qui in Italia. Ne è nata una polemica che dai social – in cui sono stati fatti commenti molto offensivi contro Lily Madigan – si è trasferita sulla stampa. In un pezzo, per l’esattezza, firmato da Monica Ricci Sargentini. Un articolo che lascia abbastanza perplessi per due ragioni: contravviene alla corretta informazione sulle persone trans e può alimentare lo stigma su di esse. Vediamo perché.
Come parlare delle persone Lgbt
Nelle Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone Lgbt si legge, da pagina 5 in poi, che «comunicare senza discriminare sulla base di orientamento sessuale e identità di genere è un dovere dei giornalisti». Per quanto riguarda le persone trans «vale il principio dell’identità», si legge nel documento redatto dall’Unar. E cioè: «Se la persona di cui si parla transita dal maschile al femminile, non importa in che fase della transizione si trovi, né se si sta sottoponendo all’iter della riassegnazione chirurgica del sesso, se lei sente di essere una donna va trattata come tale». Tuttavia nell’articolo in questione troviamo perle quali: «Lily Madigan ha 19 anni e, pur essendo nata maschio, si sente donna».
Donne trans descritte al maschile
Quella frase, di per sé, sembrerebbe semplicemente descrittiva ma il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli e la tautologia implicita a quell’affermazione – per cui se sei trans è ovvio che sei nato con un’identità di genere diversa rispetto a quella che rivendichi come tua – sembra un voler ricondurre Madigan alla sua “natura” prettamente maschile. Il pensiero va a una vignetta con una disputa tra una farfalla e una lumaca: quest’ultima chiama “bruco” la prima, legando identità a destino genetico. Concetto su cui torna più volte la giornalista del Corriere, quando prende le difese di quelle femministe che «sostengono che non ci si può definire donna se non si è nate tali, soprattutto se si è ancora in possesso di genitali maschili». Un atteggiamento non proprio in linea, quindi, con quanto previsto dalle Linee guida.
La criminalizzazione della transessualità
Ma non finisce qui. Purtroppo. Nel tentativo di perorare la causa per cui le donne trans non operate non possono essere assimilate alle donne cisgender e frequentarne gli stessi luoghi – secondo una logica escludente che porterebbe chi la pratica, si lamenta Sargentini, al rischio di apparentamento con il femminismo Terf – l’autrice porta ad esempio alcuni casi che dovrebbero dimostrare le ragioni di tale esclusione: «David Ayrton, ora diventata Davina», scrive ancora, è stata «condannata per lo stupro di una ragazzina di 8 anni, che ha chiesto di essere mandata in una prigione femminile pur non essendosi ancora sottoposto al cambio di sesso». Si noti, ancora una volta, la disinvoltura – ai rischi della sciatteria – del passaggio dal maschile al femminile. Ma il problema qui si complica ulteriormente.
Trans come stupratori?
Continua infatti la nostra a snocciolare dati e a fornire informazioni sul perché le donne trans, soprattuto se non operate, debbano stare lontane dalle donne “vere”. E cita, ancora, «Jessica Winfield, una trans che, prima di operarsi per diventare donna, era stata condannata per un doppio stupro», così come ricorda che «secondo uno studio del gruppo Fair Play for women, pubblicato proprio in questi giorni, un numero molto alto di detenuti trans sono in carcere per reati sessuali dallo stupro alla molestia». Un evidente stato di confusione nell’uso del genere grammaticale, che rischia di essere funzionale alla costruzione della demonizzazione di un’intera categoria: in quanto trans, ovvero maschio in origine, sei portato allo stupro.
La “costruzione di una nevrosi”
La disonestà intellettuale di questo tipo di generalizzazioni è stata dimostrata in un pregevole articolo di Ethan Bonali, attivista non binario, che così scrive (sebbene in relazione alla polemica sul queer): «Si costruisce una nevrosi» fa notare il militante e «perché la costruzione sia credibile» ci rivela «ci deve essere una base reale». La base reale sta appunto, nel fatto che quelle cose sono accadute davvero e che le persone coinvolte erano davvero trans. Il secondo passaggio è quello di portare «esempi per comprovare le proprie tesi e associare repulsione verso idee e categorie». Un altro procedimento, anche questo messo in atto dall’autrice è quello di menzionare «casi eccezionali e farli passare per la norma». Il metodo portato avanti nell’articolo rischia di scivolare in questa casistica, attraverso la sua argomentazione e la semplificazione messa in atto.
Il rischio di transfobia
Adesso, è anche comprensibile che in una logica iper-identitaria – come quella già rintracciata nell’articolo a cui si è rimandato in apertura – una donna non percepita come tale per la sua natura di persona trans possa dare fastidio. Pazienza, poi, che il sospetto e il pregiudizio contro certe minoranze, e contro quella in questione, venga tacciato di transfobia e di transmisoginia. Ma succede di scivolare verso certi estremismi, quando si sente minacciata la propria identità, evidentemente percepita come fragile e/o pronta per essere rimpiazzata da nuovi paradigmi culturali, più funzionali per comprendere e capire la realtà di oggi. Anche in questo caso, dunque, ci si troverebbe di fronte a un conflitto generazionale tra il vecchio che non vuole morire e il nuovo che si fa strada.
Tra patriarcato e paura di “morire”
La guerra tra i sessi, che certo femminismo non vuole abbandonare (verrebbero meno le ragioni della sua esistenza), si sta giocando sull’identità di chi tra “viaggia” tra i generi. In un sistema che prevede rigide categorizzazioni – e relativi recinti identitari – non è tollerabile che i concetti di “maschile” e “femminile” possano avere anche contorni più sfumati, che ci pongono di fronte a una riflessione sulla ridefinizione di “genere”. Riflessione possibilmente libera da pastoie ideologiche che legano rigidamente l’identità al sesso biologico. E il valore della persona, di conseguenza, a quel paradigma. Perché è qualcosa che è già stato fatto: dal patriarcato, contro le donne. È triste insomma constatare che, ancora una volta, chi dovrebbe combattere quel sistema, in virtù dell’affiliazione al femminismo, si adegua ad esso per paura di morire, politicamente parlando. Lascia basiti, infine, che una testata come il Corriere si presti a tutto ciò.