Il dibattito sulla famiglia sta attraversando il nostro paese, negli ultimi anni, nelle forme e nei modi che conosciamo. Da una parte, qualcuno la definisce costringendola nel recinto di una visione confessionale ed escludente. Dall’altra, c’è chi ci racconta storie diverse, come è diversa l’umanità messa in gioco quando decidi di crescere un bimbo o una bimba. Ma cosa accade nel mondo reale, rispetto a tutto questo? Oggi che è la “festa del papà”, sono andato in giro a fare qualche domanda.
Il sogno di essere padre
Federico è un papà gay. La genitorialità dei maschi omosessuali è al centro di un feroce dibattito tra accuse di rivoluzioni antropologiche contro natura e di sfruttamento di donne sottomesse al maschio dominante di turno. Ma è proprio così? C’è davvero un oscuro artificio, pronto a divenire maleficio, in questo tipo di scelte? Per lui, diventare genitore, «è stato semplice e allo stesso tempo sorprendente», mi confessa in chat, su Facebook. «Avevo sempre desiderato diventare padre ma negli anni avevo messo via quel sogno. Mi sembrava che la mia omosessualità fosse incompatibile con questo desiderio, così avevo iniziato a dimenticarmene, a dargli meno valore. Come succede a volte per i sogni, avevo iniziato a non crederci più».
Una famiglia “intelligente”
Poi le cose cambiano, di punto in bianco: «La compagna di una mia cara amica mi ha scritto un messaggio, che mi ha messo piacevolmente sottosopra: “che ne dici di fare una famiglia intelligente?”» Dopo averci riflettuto a lungo – perché non si diventa genitori con la leggerezza con cui si sceglie un capo di abbigliamento, ai saldi – quel sogno si concretizza. «Abbiamo deciso di provarci in “modo casalingo”, non volevamo medicalizzare un evento così speciale: dopo pochi tentativi Francesca è rimasta incinta». La bambina di Federico oggi ha tre genitori: «una mamma ed un papà e la compagna della mamma. Ha quattro nonni innamorati e due case». E soprattutto, la possibilità di conoscere tutto questo.
Non si è mai padri allo stesso modo
Non tutti sono genitori allo stesso modo, dice ancora Federico. «Vivo giorno per giorno questo dono in un contesto non certamente semplice, ma voglio sperarci. Voglio credere che mia figlia non avrà problemi nella sua vita per le mie scelte o per lo meno avrà gli stessi problemi che tutti i figli hanno in relazione alle scelte di propri genitori». Non c’è una legge, a quanto pare, per essere genitori. Lo si è. Come lo è Andrea, romano, e papà eterosessuale: «Essere padre, per me che appartengo a una generazione liberata dal concetto di continuità generazionale – nel lavoro, nel patrimonio, nell’identità culturale – è stato particolarmente facile. Soppresso il bisogno ansioso del controllo, si tramanda il senso delle cose, l’idea di libertà e rispetto. Essere padre per me significa essere presente ma non ingombrante, rassicurare senza tarpare le ali, incoraggiare senza utilizzare i miei modelli».
“La mia sessualità non riguarda le mie figlie”
Mi chiedo (e gli chiedo) cosa ha pensato quando ha dovuto mettere in relazione il suo concetto di genitorialità con modelli che non appartenevano al suo sistema di esperienze e di valori: «Le norme sono nell’occhio di chi guarda. Io sono un padre completamente diverso da come lo è stato il mio. Se io fossi gay non cambierebbe un fico secco. La mia sessualità non conta assolutamente nulla nel rapporto con le mie figlie. Non le riguarda, così come la loro non riguarda me. Conta l’arte, l’amore, la musica, la passione per la natura, il rispetto reciproco, l’allegria, il cazzeggio… e mille piccole grandi cose». Conta l’arte e l’amore, quindi. Un sentimento di bellezza profonda. E, quindi, il rispetto reciproco.
Raccontarsi con sincerità
E c’è una storia di rispetto nell’esperienza di Andrea Rubera, papà arcobaleno in prima linea per i diritti delle persone Lgbt e gay credente: «La scommessa più grande che abbiamo accettato quando abbiamo deciso di diventare genitori? Potere assicurare, sempre e comunque ai nostri figli, un racconto sincero e trasparente della loro storia. Sta qui, credo, la differenza fra una coppia di genitori dello stesso sesso e le altre coppie». Una storia che racconta se stessa, nella vita di tutti i giorni. E che costruisce se stessa come narrazione di una felicità possibile, tra le tante: «Dobbiamo essere coerenti al massimo, per la sana crescita dei nostri figli, nel raccontare sempre e comunque – al panettiere, al macellaio o a persone a cui non avresti voglia di svelare i particolari della tua famiglia – chi sei, come sono nati i tuoi figli, e dare dei dettagli sulla tua famiglia».
Essere padri? Una cosa enorme
A sentire tutti loro, essere padri coincide con una straordinaria storia d’amore: «L’esperienza più forte che ho fatto quando sono diventato padre» dice ancora Rubera «è stato rendermi conto che inevitabilmente, e quasi spontaneamente, ti sgorgano dal profondo delle risorse, che non ho fatica a chiamare materne». Risorse che trova chiunque si relazioni con un bimbo appena nato, «che dipende in tutto e per tutto da te». Questa la sua scoperta più incredibile, «oltre a prendere coscienza di cosa significhi essere genitori: una cosa enorme, che si apprende solamente dopo esserlo divenuti». E questa esperienza si coniuga nella vita di tutti i giorni: «I nostri rapporti con le altre famiglie, i vicini, la pediatra, i genitori dei compagni di classe, i professori, sono assolutamente identici».
I papà dell’arcobaleno
E poi ci sono anche i genitori delle persone Lgbt. E quando questo accade, devi ridefinire il perimetro dell’essere padre un’altra volta, come è successo a Lino Manfredi, tra i fondatori dell’Agedo di Torino e adesso esponente di Geco Onlus, associazione di genitori e figli nata nel 2016 per combattere l’omo-transfobia. La sua storia l’ha raccontata nel film-documentario Due volte genitori, in cui parla del suo rapporto col figlio Andrea. «Non ho mai avuto ostilità contro l’omosessualità. A Torino quando alla libreria di Angelo Pezzana venivano personaggi come Fernanda Pivano o Allen Ginsberg andavo per l’amore per la letteratura, ma non mi interessava la questione in sé». Fino a quando l'”imprevisto” non entra nella propria vita.
La presunzione dell’eterosessualità
«Partiamo tutti una presunzione di eterosessualità, per i nostri figli». Quando arriva il momento del coming out il mondo, improvvisamente, ti appare in una nuova luce. E cominci a farti delle domande. «Ti viene la paura del futuro, ti chiedi che cosa sarà di tuo figlio, se verrà emarginato. Le attese familiari crollano. Cominci a chiederti in cosa hai sbagliato, nell’educarlo. Ti tiri fuori le cose più assurde, ti chiedi se non lo hai portato a giocare a pallone abbastanza». E dopo questa tempesta del dubbio, arriva la luce dell’arcobaleno. «Ho guardato mio figlio per quello che era. Ho visto in lui il ragazzo che avevamo cresciuto, io e mia moglie, con i suoi valori, i suoi interessi». Lui, Andrea, era lì. In quel “qui ed ora”, bisognava solo ritrovarsi.
L’antidoto della conoscenza
E come superare il trauma dell’imprevisto, in una società che non ti ha preparato ad essere padre di un ragazzo gay? «Io e mia moglie non ci siamo persi d’animo. Certo, abbiamo fatto il nostro percorso di accettazione. Ci è voluto il nostro tempo. Abbiamo cominciato ad informarci. A leggere molti libri. Poi abbiamo incontrato i suoi amici, i suoi conoscenti, i suoi compagni. Anche il suo fidanzato quando lo ha voluto portare a casa. Per tranquillizzarci come genitori. Vedevamo che stava bene. E la sua felicità si trasferiva direttamente in noi. Ed è diventata energia. Tre mesi dopo, io e Laura, mia moglie, eravamo già al suo liceo a fare un incontro con la scuola per parlare della nostra esperienza».
Il viaggio per ritrovarsi
Quando Lino seppe di Andrea, gli consegnò una lettera: “Sarò al tuo fianco per amarti ancora più prima, e tu mi sarai da guida. Ma devi lasciare il tempo per cambiare me stesso”, c’era scritto. «Perché il cambiamento riguardava noi, mio figlio era stato sempre se stesso. Ero io che non riuscivo a vedere chiaramente la sua identità». Poi, i primi passi, quel venirsi incontro nonostante le difficoltà. «Abbiamo cominciato a fare l’unica cosa che un genitore fa quando ama suo figlio: cominciare a capire». Per recuperare il tempo necessario. Per rincontrarsi e riconoscersi. E, quindi, ritrovarsi per sempre.