Storie

Intervista esclusiva: “Sono gay e così sono sopravvissuto alle purghe in Cecenia”

La storia di F. racconta bene cos’è la Cecenia: una striscia di terra che grazie al fondamentalismo musulmano vegeta in un oscurantismo da medioevo. E spiega come sono nate le torture.

L’inizio del racconto

F. inizialmente non vuole parlare. “Voglio dimenticare”. Rifugiato in un paese europeo e lontano dalla Cecenia continua a ricevere sui social minacce di morte, insulti. “Cosa c’è scritto?”. Non sente la mia domanda. Non vuole? Piuttosto, non può. L’inferno delle torture cecene destinate alle persone LGBT mette alla prova senza chiederti il permesso: affina l’udito degli uni e rende sordi gli altri. Attraverso un interprete continuo a chiedere la sua storia. Per aiutare l’Occidente a capire. Perché in Italia, gli spiego, c’è chi non ci crede. Si sofferma un attimo. Poi decide di condividere la sua sofferenza e, così facendo, di alleggerirla un po’. Parla a lungo, senza sosta e con tale determinazione che riesco a interromperlo poco, solo quando riprende fiato. Fare domande comunque non serve. Il suo monologo fornisce già le risposte.
Decidiamo insieme di non pubblicare il suo nome; dal testo sono stati eliminati tutti gli elementi che possono far risalire alla sua identità e al luogo in cui si trova. Si chiama F, questa è la sua voce.

“Non lo diresti mai”

Sono gay. Non lo diresti mai. Nessuno lo sa. Neanche mia moglie lo sapeva. Faccio una vita normale. Ma quando ho la possibilità di incontrarmi con qualcuno di certo non ci rinuncio. È una necessità. Non credo che questa sia una colpa. Natura o malattia? Non lo so. Non me lo chiedo neanche.
Nella nostra repubblica nessuno va in giro con piercing, capelli lunghi o cose del genere; nessuno mostra il suo orientamento sessuale. Tu lo diresti che io sono gay? E come me molti altri. Molti hanno famiglia. Praticamente tutti hanno famiglia. Da noi di queste cose non si parla. Non si mettono le foto profilo sui siti di incontro. Nessuno [dei gay del posto] conosce i veri nomi degli altri, dove lavorano, dove vivono. Abbiamo nickname, vite parallele. Ci chiamiamo Assad un giorno, Musa l’altro.

I contatti sul telefono

In Cecenia lavoravo. Tanto. Venivo da una famiglia benestante. I soldi non mi sono mai mancati. Avevo un amico, anche lui gay. Ci vedevamo raramente, molto raramente. E avevamo un conoscente in comune. Non so in che rapporti fossero tra di loro. Io li conoscevo entrambi. Le persone li vedevano venire da me, vedevano che parlavamo. Poi il nostro conoscente comune mi ha presentato un suo parente. E poi questo parente è stato preso per qualcosa: ed evidentemente gli hanno controllato il telefono. Dai suoi contatti hanno capito qual era il suo orientamento sessuale e seguendo tutta la catena sono risaliti a me.

“Sto venendo da te”

Un poliziotto mi ha telefonato: “Dove sei? Vestiti in fretta, sto venendo da te”. Ho nascosto subito il telefono su uno scaffale, ne ho preso un altro dove non avevo contatti registrati. Sono uscito e li ho trovati già sulla porta. In macchina mi hanno fatto piegare perché non vedessi dove stavamo andando. E ho capito subito che mi stavano portando via. Hanno controllato il mio telefono ma non hanno trovato nulla.
Mi hanno portato in una cantina. Le porte erano spesse ed era umido. Era dura. Non ero solo. C’era già quel ragazzo, il parente di quel conoscente. Mentre il mio conoscente era stato liberato per aver consegnato noi.

Le torture

Durante le prime ore mi hanno picchiato. Mi hanno rotto delle costole. Poi è arrivata la corrente: un cavo con delle pinze all’estremità. Me le hanno attaccate sulle orecchie e sulle mani. Resistevo. Fisicamente resistevo, moralmente volevo morire. Volevano dei nomi, dei numeri di altri gay. Io ho detto che avevo solo conoscenti, vicini di casa, che avevo una famiglia. Ho detto: “se sono gay portate qui qualcuno che possa dire di essere stato con me. Vi giuro che non è vero”. E lo avrei giurato.
Vicino a me c’era questo ragazzo che resisteva come me. Ma urlava tanto, però, più di me. Gli ho detto: “tu inventa qualcosa e raccontagliela”. Stava soffrendo moltissimo.
La cantina è fatta così, ci sono molte camere. Senti tutto ma non vedi nulla. Ci abbiamo passato una settimana. Non ci davano nulla da mangiare. Morivamo di fame. Né cibo né acqua. Ci permettevano di pregare. Andavamo in fretta in bagno a fare l’abluzione e bevevamo.

L’amico scappato

Mentre ci tenevano là sono riusciti a trovare l’indirizzo del mio amico. Sono andati a casa sua ma i suoi parenti hanno detto che era a Rostov. Dopo gli hanno telefonato loro stessi. Lui ha venduto la casa per metà del suo valore ed è andato all’estero. Questo ci ha salvati. Ci hanno lasciati andare.
Mi hanno detto che non dovevo partire, che dovevo essere a loro disposizione in qualunque momento: “Non dire una parola a nessuno e resta a casa in modo da essere sempre reperibile”.

L’inizio della persecuzione, una casualità

I miei parenti sono così: nel caso in cui lo scoprissero non lascerebbero che la polizia mi uccida, mi ucciderebbero loro stessi. Non riuscirebbero a sopportare una tale vergogna. Sapevano che ero stato trattenuto, ma non per cosa. Hanno chiesto al poliziotto i motivi ma anche lui: “hanno detto di andarlo a prendere, io non so altro”. Ma i miei parenti si sono lamentati: “non fuma, non beve, non crea problemi, non fa nulla”. E un poliziotto ha risposto: “ci sono giunte voci che sia gay”. I miei parenti hanno risposto: “ma quale gay? Ha una famiglia, non è possibile”. Ma non si sono impegnati tanto a cercarmi. [Hanno deciso che] visto che il problema è questo, meglio aspettare. Quando sono arrivato a casa ho detto: “cercavano una persona che conosco, speravano di trovarla tramite me”. Dopo, uno dei miei parenti mi ha portato da parte e mi ha detto: “giravano voci che tu fossi gay, sono quasi morto di vergogna”. E io: “non è vero che sono gay, tu mi conosci bene. Sono tutte bugie”.

Prima ondata

E in quel momento è iniziata l’ondata di arresti per omosessualità.
Come è successo?
Nella nostra repubblica c’è una nuova mania.
In che senso mania?
Hanno vietato la vodka. È diventato impossibile comprare alcol, solo in due-tre posti massimo e per qualche ora. Tutti hanno iniziato a prendere pastiglie, “lirik” o “tropik”, sostanze psicotrope. Molti ne sono diventati dipendenti. Hanno preso un ragazzo per questo. Gli hanno confiscato il telefono per controllarlo e lì hanno trovato “Hornet”, fotografie e chat. E seguendo quel filo hanno iniziato a portarci via tutti. Tutta questa tragedia è nata da una casualità.

O lo uccidete voi o lo uccidiamo noi”

A Zozin-Jurt [villaggio ceceno] rinchiudevano le persone omosessuali. Lo so per certo. Un mio parente lavora proprio lì. Non sa che sono stato fatto prigioniero. Un giorno mi chiama e mi dice: “Cosa fai, ***? Ma ti immagini quanti gay ci sono in Cecenia!”. Io rispondo: “ma quali gay in Cecenia?”. “Pare che abbiano portato 200 persone. Ci hanno dato pieni poteri di catturarli”. Gli chiedo perché. “Per svergognarli, chiamano i loro parenti, accendono la telecamera e poi dicono ‘il vostro caro è così, fate qualcosa per risolvere il problema. O lo fate voi o lo facciamo noi. O lo uccidete voi o lo uccidiamo noi. Decidete cosa è meglio”.

La fuga

Perché sono scappato da laggiù? Mi ha telefonato la mia ex vicina: sono venuti dei militari, hanno bussato, cercavano me. Lei gli ha mentito dicendo che non sapeva dove fossimo andati. E quello stesso giorno hanno preso un mio conoscente. Lo hanno lasciato libero quasi subito, non era lui che cercavano. Ma li ha sentiti fare il mio nome parlottando tra loro: “sono andati a prendere quello”. Lui mi ha telefonato: “nasconditi, sparisci, ti stanno venendo a cercare”.

Il numero verde

Io mi sono spaventato, ho iniziato a vagare da una parte all’altra prima da un vicino, poi dall’altro. Non mi fidavo di nessuno. Solo un amico era riuscito a convincermi dell’esistenza di questo aiuto (il numero verde di “LGBT Russia”). Ne avevo sentito parlare già da altri, ma non ci avevo creduto. Non volevo andarmene perché ho una famiglia. Ma ho ascoltato il mio amico, ho avuto fiducia in lui e per questo ora mi trovo qui. I miei genitori non sanno dove sono. Non l’ho detto neppure a mia moglie, ho mentito dicendo che un conoscente mi ha offerto un lavoro. E lei: “se è un buon posto, vai”.

“Se impiccarsi non fosse peccato lo avrei già fatto”

Sto appena ricominciando a tornare in me. Prendo delle medicine. Va bene, mi hanno picchiato, questo posso sopportarlo. Ma moralmente… moralmente mi hanno ucciso. Se impiccarsi non fosse un peccato lo avrei già fatto. Mi addormento e mi sveglio di soprassalto. Esco per strada e ho l’impressione costante che mi stiano spiando. Si ferma una macchina e me ne allontano di corsa. Neppure a Mosca voglio vivere. Quelli sono ovunque. Non posso più tornare indietro. Non so dove sto andando ora e non so che cosa mi succederà.

“Voglio una vita tranquilla”

Perché mi è successo tutto questo? Voglio vivere una vita tranquilla come tutte le altre persone. Lavorare. Bere, mangiare. Pagare le tasse. Non ho mai fatto il prepotente con nessuno, non ho mai chiesto nulla. Ho lavorato tutta la vita. E del fatto che sono gay non ho colpa. Non organizzo gay Pride. Se una persona si trova in questa situazione non credo che vada uccisa. Né la cosa deve essere resa nota. Bisogna aiutarla in qualche modo. Forse mandarla all’ospedale. Forse esiste una cura. Oppure accettarla.

(N.b.: la foto di copertina di questo articolo si riferisce ad una manifestazione di protesta e non è in alcun modo riconducibile a chi ha rilasciato la testimonianza riportata)

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