La tragica vicenda di Paolo, il diciottenne gay barese la cui vita è finita sotto un treno qualche giorno fa, ha scosso la gay community italiana, pur non essendo il primo suicidio nato (probabilmente) dall’omofobia subita in famiglia o a scuola. Giorgio Barillà, un ragazzo di 17 anni, gay dichiarato e attivista, ci ha mandato questo testo, chiedendoci di pubblicarlo perché altri ragazzi, magari nelle condizioni di Paolo, lo leggano e trovino il coraggio e la forza di essere se stessi. Ve lo proponiamo volentieri.
Giorgio Barillà
Nel 2013 ho iniziato un percorso di psicoterapia che si è trasformato in un enorme ciclo di incontri con professionisti del settore. Il “problema” emerso non era l’omosessualità, ma non ha certamente aiutato ad affievolire la situazione che stavo vivendo.
Quale situazione? Beh, a 14 anni non avevo così tanta fiducia in me stesso. E ne avevo ancora meno negli altri. Ho iniziato ad adorare la sensazione del dolore dell’autolesionismo e il sentirsi da soli ed esclusi mentre questo accade. Poi ho iniziato a farlo anche mentre parlavo con le persone. Lo dicevo, espressamente, e a volte andavo anche oltre. A volte ho pensato anche, pure prima dei quattordici anni, che mi sarei tenuto questo “segreto” a vita.
Nel 2013 ero a cavallo fra i 14 e i 15 anni e decisi di dichiararmi a mio padre a causa della mia assidua frequentazione dei gruppi giovani di Arcigay. La sua risposta fu “cerca di non inserirti in cattivi meandri”, con uno sbuffo poco piacevole che faceva intendere che la notizia non era gradita.
Nel Natale di quello stesso anno decisi di appendere all’albero delle palline di Natale arcobaleno. I disegni li ho fatti io e le palline le ho messe io. Probabilmente nessuno ci ha fatto particolare caso.
Nel Natale del 2014 mio papà ha messo sull’albero di Natale quelle palline arcobaleno. In cima, come la avevo messe io. Forse per caso, forse per volontà, o forse semplicemente perché non ne rimanevano altre.
Nel Natale 2015 le palline erano ancora lì.
Il giudice aveva stabilito che non era necessario limitare la mia libertà. Ma la psichiatra non era d’accordo. Lei voleva imporre alla mia famiglia, specialmente a me e mio padre, un percorso di terapia familiare per ripristinare i rapporti. Papà ha annuito ad affermazioni su me stesso che ho ritenuto disgustose.
Quel giorno sono tornato a casa e gli ho detto che se fossi stato la persona che ha descritto la terapeuta mi sarei fatto schifo da solo. Poi sono andato via e ho preso un treno.
Ci sono rimasto solo un po’. Quando sono tornato a casa c’erano mio padre e mio fratello che si stavano urlando a vicenda opinioni diverse sulla vicenda. Loro non lo sanno, l’ho origliato alla porta per un po’. Dopo di che papà è venuto e mi ha detto che avevo ragione.
Nell’estate del 2015 mio papà e mio fratello sono venuti al Torino Pride e hanno partecipato insieme ad Agedo, associazione di cui mio padre fa parte e di cui segue le riunioni e gli spostamenti.
Perché vi ho raccontato tutto questo? Perché il rapporto fra me e mio padre è, agli occhi esterni ma anche interni, alquanto conflittuale. Non ci prendiamo, specialmente io, sempre a buone parole. Ma come potete vedere dalla mia storia, se una volta la mia famiglia per me era solo un ammasso di cellule (e l’ho anche specificato a mio padre, ricordo di avergli detto “Sì, se potessi cambierei famiglia”), ora riconosco gli enormi passi avanti che tutti e tutte hanno fatto per potere permettersi di chiamarsi, appunto, famiglia.
Giorgio con il suo papà, Bruno
E sì, lo dico con coscienza di causa: la famiglia non è solo il luogo dove nasci. E’ il luogo dove cresci e dove ti senti te stesso. E sono concetti ben diversi.
Mio padre non è un padre hi-tech con la memoria di ferro. Non si ricorda nemmeno quando esco da scuola. Non sa usare il cellulare e da giovane zappava i campi. E’ nato quando è stato fondato l’ONU ed oggi ha 67 anni.
Mio padre a volte non riesce a riconoscere le truffe giornalistiche o i lavori del nuovo millennio. Nove volte su dieci non sente quello che dico e dieci volte su dieci mi chiede di ripeterlo lo stesso.
Però mio padre ha aiutato il mio ragazzo a trasferirsi. E’ venuto al pride con me. Mi ha permesso nel corso degli anni di scrivere innumerevoli articoli riguardo l’omotransfobia e mi ha accompagnato a discussioni pubbliche, manifestazioni e persino eventi a Roma. Più volte.
Mio padre lascia continuamente dormire il mio ragazzo a casa mia e me a casa sua. Lo tratta veramente come vorrei lo trattasse e si rende disponibile in ogni maniera che può.
Forse dall’esterno non sembra, ma è questo che fa di una persona un genitore che puoi chiamare tale. Non è il fatto che ti abbia fatto nascere. Non è neanche il fatto che ti mantenga, come mi viene spesso detto. Non è neanche il modo in cui reagisce la prima volta al tuo coming out.
E questo è il punto.
Dichiarare di essere gay non è ancora come dire che ti piace il cioccolato al posto del pistacchio. E un genitore non è detto che adori sin da subito la tua condizione.
Ma tu hai ragione. Tu hai avuto, hai e avrai sempre ragione. E il genitore lo capirà. La famiglia lo capirà. Gli amici lo capiranno. Perché la famiglia è il luogo in cui puoi essere te stesso e che senti parte della tua vita, non semplicemente un posto in cui qualcuno ti ha messo per sbaglio.
Dagli tempo. Non essere frettoloso. Aiutali.
Tu non hai bisogno di nessuna guarigione, di nessun percorso, di nessun aiuto – se così vogliamo intenderla. Ma coloro intorno a te che finora hanno vissuto con una fetta di prosciutto sugli occhi sì. Provaci e provaci sempre, costantemente, e se alla fine perdi la sfida, ricorda che puoi cambiare gli sfidanti.
Vivi sempre in mezzo alle persone che ti fanno sentire a tuo agio e nel tuo spirito.
Insomma, se mi vedeste dall’esterno direste ancora che io detesto mio padre, probabilmente. Ma, in sé, questo è falso. Perché, al di là di tutto, apprezzo tutto quello che ha fatto pur di potersi ritenere una persona che voglio e non che sono costretto ad avere nella mia vita.
Ma questo non accade sempre. Per il ragazzo di Bari non è successo. Per molti non è successo. E per alcuni forse non succederà mai.
Ma non dimenticate: voi avete ragione. E dovete manifestare la vostra ragione in ogni modo possibile e immaginabile. Andate dalla polizia, contestate, scrivete sui giornali, fate casino e fate uscire la vostra storia. Contattate chi pensate possa darvi una mano e, mai e poi mai, pensate che tutto questo sta succedendo per colpa vostra.
La vostra colpa, quando state male per quello che dice chi giudica chi siete o chi dovreste essere, è solo dargli così tanto ascolto da potervi deprimere per la sua opinione.
Poche persone hanno il potere di influenzarvi nella vostra vita. E quelle persone le scegliete voi, non sono imposte.
Sceglietele bene.
PS: se volete contattarmi sarò felicissimo di ascoltarvi. Il mio contatto è qui.
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