Amministrative 2016? Il caso delle recenti elezioni primarie ha sancito, forse definitivamente, la crisi profonda del Pd. Un partito che, con ogni evidenza, non solo sta perdendo sempre di più la propria identità politica, ma che non riesce (più) a far breccia nel cuore dell’elettorato, per quanto riguarda la partecipazione attiva di militanti e simpatizzanti.
I continui scandali – come “mafia capitale” – lo scollamento profondo tra vertici e società civile (ricordate le splendide sortite di Poletti su università, tenore di vita ed altro?), il costante superamento dei valori di sinistra (con il jobs act e la cosiddetta “buona” scuola, con cui si sono deluse le aspettative dell’elettorato tradizionale degli ex DS, ovvero classi lavoratrici e insegnanti) per non parlare della timidezza – qualora non vera e propria collateralità con le frange omofobe interne ed esterne – con cui è stata affrontata la questione delle unioni civili (e il conseguente tradimento dell’intera comunità Lgbt), caratterizzano l’azione politica dell’attuale governo e della maggioranza parlamentare.
E i risultati si vedono: domenica scorsa, invece di votare in massa il candidato di un soggetto politico che, nella narrazione della sua classe dirigente, starebbe salvando i destini del paese, la gente ha preferito disertare l’appuntamento ai gazebo. Trend già in atto da diverso tempo, come ha dimostrato il caso di Milano e come conferma quello romano. Napoli, poi, non si smentisce già come in passato, con i consueti veleni.
Tali problemi interni, che dicono molto sulla credibilità del Pd, hanno poi ripercussioni politiche non indifferenti sul piano della qualità dell’offerta democratica. Per noi persone Lgbt soprattutto. Renzi, sposando la linea delle unioni civili, si è già posto sin dal 2013 al di fuori del consesso dei paesi più progressisti e avanzati proponendo un modello vecchio e logoro, inadeguato in termini concreti e, di fatto, più simile alle richieste della destra, che ha mirato – riuscendoci – a un istituto a diritti ridotti e parziali. Il mantra “è stato colmato un gap di trent’anni” andrebbe integrato con la frase: prima eravamo fuori dall’Europa, adesso ci stiamo entrando, candidandoci per essere gli ultimi della fila. Questo sarebbe il progresso renziano da destinare agli affetti, le famiglie e soprattutto alla prole delle persone gay e lesbiche.
In questo quadro, e in vista delle prossime amministrative, diventa davvero difficile per l’elettorato Lgbt – o almeno, per quello più critico e consapevole – porre la crocetta su un candidato affidabile. I candidati renziani per le città di Milano e Roma quale credibilità possono avere, al netto dei programmi, rispetto alle legittime richieste della gay community quando i partiti che li hanno prescelti hanno mostrato un atteggiamento ondivago e contraddittorio nelle ultime settimane? D’altronde, le altre scelte sono irricevibili. Nessuna credibilità ha, infatti, il M5S: il dietrofront sul canguro, che ha determinato la fine delle stepchild adoption, hanno collocato il movimento da partito-faro per i diritti delle persone omosessuali in Italia a soggetto che, come qualsiasi altro, obbedisce a logiche di potere e di palazzo. Mentre è ai limiti del masochismo scegliere qualsiasi candidato abbia l’appoggio di un Salvini o di una Meloni. Ci sarebbero altre alternative, che però corrono il rischio di essere rappresentative di un simbolo di partito e nulla più.
Se fossimo un paese a democrazia compiuta, avremmo un sistema che permette una scelta tra partiti antisistema più credibili dei nostri (come Podemos in Spagna) o una valida alternativa di sinistra che non affidi certi temi a chi, come Fassina, si accoda alle sirene contrarie all’”utero in affitto”. E invece c’è molta solitudine dentro le file del voto arcobaleno, obbligato a scegliere tra rappresentanze simboliche, populismi di varia natura, inconcludenza e la peggiore destra europea travestita con gli abiti più presentabili di certo riformismo europeo.