La situazione mediorientale è da sempre delicata, ma negli ultimi anni ha visto aprirsi fronti nuovi, lasciando in un apparente cono d’ombra un tema caldo da più di mezzo secolo: la questione israelo-palestinese. Di riportarla in luce si occupa un film solo apparentemente piccolo, che sceglie un punto di vista ancora più foriero di interesse. “In between – Libere disobbedienti innamorate” usa lo sguardo delle donne e sulle donne.
Tre ragazze protagoniste
Le sue tre protagoniste, palestinesi, giovani, a loro modo “comuni”, esemplificano tutto ciò che una donna, in quel contesto, può essere. Il personaggio di Nour (Shaden Kanboura) – musulmana osservante, studentessa di informatica, promessa sposa di un uomo che la vuole totalmente sottomessa – si rovescia in Leila (Mouna Hawa), che musulmana non è, vive all’occidentale senza farsi mancare tutti gli eccessi dei suoi coetanei. Avvocata, vuole vivere una relazione pienamente paritetica.
Nel mezzo Selma (Sana Jammelieh), musulmana per famiglia ma che non si cura della religione e sogna di fare la DJ. Nel frattempo fa la barista e lontana da casa vive liberamente il proprio amore per le donne, in particolare una: Dounia.
In un film già ricco di spunti, la regista Maysaloun Hamoud sceglie di inserire e dare una notevole importanza alla comunità LGBT; un dato che ci permette di fare una riflessione su quale sia l’atmosfera nella quale si vive la quotidianità.
L’incontro con la comunità lgbt
Le tre ragazze condividono un apparentamento a Tel Aviv, che una parte della comunità LGBT considera la propria Mecca locale. La fama democratica dello Stato di Israele si regge anche sull’idea che qui ragazzi e ragazze omosessuali possano viversi liberamente. La sceneggiatura non tace le contraddizioni di un Paese nel quale “la gente non vuole sentire parlare arabo”, ma sembra almeno parzialmente confermare questa idea. Se non altro all’interno dell’ambiente protetto della città e, ancora di più, della casa delle ragazze. Qui i ragazzi gay possono essere pienamente se stessi, dando sfogo, senza cadere nel macchiettismo, anche ai modi effeminati. Così quell’angolo di Tel Aviv sembra quasi New York, simbolo dell’Occidente libero da cui, però, qualcun altro è tornato.
Nel chiuso delle loro case due ragazze possono amarsi, in strada però è opportuno prestare attenzione. Nel chiuso di un apparentamento una musulmana violentata dal suo promesso sposo può trovare due amiche quanto più possibile diverse da lei, eppure pronte a difenderla.
Fuori casa e con le femiglie
Nelle famiglie, però, tutto cambia. In modo molto meno prevedibile di quanto ci si può aspettare. Lo sguardo spesso giudicante che dall’Europa siamo soliti riservare ai paesi musulmani, ci spingerebbe a pensare che nessun padre islamico osservante difenderebbe una figlia femmina. Una famiglia che non tenga in nessun conto la religione, invece, siamo portati a credere che debba agire in modo opposto.
La sceneggiatura, firmata dalla regista stessa, rovescia i preconcetti. Non è la religione a nutrire l’odio, ma l’ignoranza, di cui un maschilismo fatto di padri padroni e mogli succubi è la più evidente manifestazione. Una realtà, questa, che riguarda ogni Paese, da Israele all’Europa.
L’Europa modello di libertà
Allo stesso modo, l’immagine democratica di Israele finisce con il rivelarsi parziale e limitata ai grandi centri, benché il film intenda raccontare i giovani e tratti il tema palestinese con significativi, ma non esasperati cenni.
I giovani che in quelle città diventano adulti non possono che guardare all’Europa come a un mondo di libertà, che alle giovani di Tel Aviv non è data, perché gli uomini, anche i più liberali, mentono.
Quello che questo film fa cadere, tuttavia, è proprio la convinzione di alterità. Ciò che qui è mostrato, benché estremizzato dal contesto, potrebbe accadere in modo non troppo dissimile anche in Europa. Sta alle ragazze fare quanto più è loro possibile per evitarlo, mantenendosi “Libere, disobbedienti, innamorate”, innanzitutto di sé.