Da oggi e per i prossimi tre sabati, Gaypost.it ospiterà i racconti vincitori della prima edizione del Concorso letterario Omphalos, indetto dall’omonima associazione LGBTQIA+ umbra.
Iniziamo con “La Luna Muta” di Anna Martellotti che è stato insignito della menzione speciale.
La luna muta
Quando Annalisa si alzò in piedi per parlare tutti tacquero e allora mi resi conto del perché avesse tanto insistito affinché ci riunissimo in quel locale per pensare: non voleva che il rumore di televisori o musica ad alto volume disturbasse quell’annuncio che doveva cambiare per sempre il corso delle nostre vite.
Erano passati undici mesi da quella sera al La luna muta, ma io la ricordavo in ogni dettaglio, perfino come era vestita, la giacca indiana patchwork che adorava e che aveva reso una executive suite da portare con nonchalance perfino con i jeans; allora aveva ancora la lunga chioma miele che si era trasformata due mesi dopo in una zazzera corta castano chiaro che la rendeva, se possibile, ancora più bella.
Annalisa, detta Allì, era approdata in città da quattro anni: a inserirla tra noi inseparabili era stato Gianni, che l’aveva conosciuta in palestra e aveva trascinato nelle nostre uscite questa trentenne di successo, brillante, vibrante, un dottorato in management industriale, così giovane e già Area manager di una grande azienda; intelligente, vivace, colta e … bellissima. Splendida. Di più, irresistibile. Al primo incontro avevo saputo, in un solo sguardo, cosa mi sarebbe successo. E avevo cominciato a temere che proprio Gianni avesse delle chances con lei. Invece Allì si era inserita tra gli inseparabili con una naturalezza senza fronzoli, asessuata. Che durava da cinque combattutissimi anni.
Gli inseparabili sono i miei amici; il nome alla comitiva l’ha dato Marco, l’amico intellettuale che allora era ancora un timido e infelice dipendente di banca. Era lui, animo gentile e lettore vorace a proporci mostre, musei, concerti, film, spettacoli. Ci riempiva la vita di bellezza, il suo antidoto alla quotidiana vicinanza col cinismo, l’arroganza, l’arrivismo.
Lo eravamo davvero inseparabili, compagni di liceo che non s’erano lasciati allontanare dai percorsi diversi delle nostre vite. La luna muta era uno dei nostri covi, amavamo quell’allegro casino di sedie e tavoli scompagnati, le pile di libri e riviste a disposizione dei clienti, gli arredi come un bric-à-brac da mercato delle pulci, quell’inimitabile meandro di stanze collegate da scalette e gradini che un tempo era stato il retrobottega di un emporio di quartiere.
“Mi sono licenziata” ci disse; con voce ferma, quasi dura, senza alcun preambolo. Ai nostri sguardi esterrefatti aveva proseguito “Basta, quella pressione mi sta uccidendo dentro.” Eravamo sbalorditi. Muti nel grembo della Luna muta.
Fu Lea la prima a ritrovare il fiato; interruppe quel silenzio impastato balbettando un “Ma, ma … “. Ma Allì non le dette il tempo di proseguire:” Ho già deciso. Rilevo la lavanderia sotto casa, userò la mia liquidazione. Finalmente un lavoro con orari, senza missioni fuori sede, nell’odore del pulito, a contatto con gente normale. Ho già dei progetti. Sarà una lavanderia rispettosa dell’ambiente, pochi prodotti chimici, servizi nuovi, profumazioni a scelta del cliente. Voglio creare anche un’area fai-da-te, un laundry parlour con due macchine automatiche, ma anche con un book crossing e un angolo caffè. Lo so che sembra una contraddizione impiantare una lavanderia automatica all’interno di una tradizionale, ma sono certa che saprò creare un rapporto di fiducia anche coi clienti della gettoniera, diventerò la loro consulente delle macchie, vedrete che alla lunga preferiranno il servizio al bancone rispetto alle macchine automatiche. Che poi, i gettoni li vendo comunque io, no? Sono però in alto mare con il nome, ho bisogno dell’aiuto degli inseparabili. Come la vogliamo chiamare, questa lavanderia?”
“Tu devi essere impazzita” fu il commento duro di Claudio. “Lasci un lavoro sicuro, remunerato, di altissima soddisfazione, per … per aprire una lavanderia!” era sbottato; “Mi spieghi perché?” aveva concluso quasi gridando.
“Perché… perché alla Janesi non respiro, Claudio, non vivo. Senza orari, pasti, giorni festivi, sempre a servizio dell’azienda …”
“Ma fammi il piacere! Questa è fuffa, Allì.”
“No, faccelo tu un piacere, Claudio” aveva commentato con voce tagliente Lea, sua moglie “chiudi quella maledetta bocca!”
“E perché dovrei, sentiamo, eh? Perché me lo dici tu? Se sto solo dando voce a ciò che stiamo pensando tutti!”
“Certo, perché questa è la tua specialità, no? Pensare al posto degli altri. Chiedere loro di non pensare i propri, di pensieri, ma i tuoi, solo i tuoi, sempre i tuoi!”
Ormai eravamo abituati a quegli alterchi tra Claudio e Lea; pur non sapendone i motivi, capivamo che erano in crisi profonda, ai limiti della rottura.
“No, ha ragione lui, Lea, non vi sto trattando da amici inseparabili. Avete tutti ragione. Vuol dire che, oltre a questo, vi chiederò un po’ di tempo per ascoltare una storia”.
Si alzò di scatto e si diresse alla cassa; prelevò cinque bigliettini del locale e armeggiò per un po’ con la penna. Poi tornò al tavolo e ci distribuì i cartoncini. Su un lato su cui c’era stampato l’haiku del Luna muta, del quale i gestori erano così fieri
La luna muta.
Ci piace comunque.
Verbo o attributo.
aveva sottolineato la parola “verbo”, mentre sul retro aveva scritto:
Amici inseparabili, ho bisogno di un grosso prestito. Ognuno per quel che può, prestatemi un po’ di coraggio.
Come non amarla?
Ci chiese di nuovo di tacere e ci raccontò la storia.
“Fu 15 anni fa. Io avevo 18 anni, Vince 17 ed eravamo innamorati come solo a quell’età si può esserlo. Quel giorno di giugno andavamo a festeggiare la promozione, mio padre mi aveva dato il permesso di prendere l’auto, avevo la patente da solo qualche mese. Con noi c’era anche Elena, la sorellina di Vince, non c’era stato verso, anche quella volta ce l’eravamo dovuta portare appresso. Ma eravamo felici lo stesso, ridevamo, cantavamo, avevamo preso la strada del mare quando … non lo so come, d’improvviso la macchina andava dove voleva, strideva, slittava, sbandava, rotolò tre o quattro volte finché si fermò nella scarpata. Ero riversa sul volante, schiacciata dal corpo di Vince, Elena dietro rantolava.
Vince morì, sul colpo dicono. Elena sopravvisse, come me. Ma ebbe un trauma cranico che ne determinò un ritardo irrecuperabile nella crescita intellettiva: a 24 anni gioca con le Barbie, guarda i cartoni animati, disegna come una bambina … Con Emma e Remo, i genitori di Vince, non ho mai interrotto i rapporti. Loro sono stati meravigliosi, non mi hanno mai addossato la colpa. Forse per loro continuare a vedermi era un modo di trattenere qualcosa di Vince. Oppure forse era per il bene di Elena. Remo è morto d’infarto nel 2007, Emma invece è morta di tumore un anno e mezzo fa. Resta Elena, che per colpa mia è come una bambina e non può badare a sé stessa. E io a Emma l’ho promesso che ci avrei almeno provato. In mancanza di parenti disposti a occuparsene ne ho chiesto l’affidamento, per scongiurare il ricovero in un istituto. Elena con me ha consuetudine, il giudice me lo concederà, lo ha quasi preannunciato nell’ultimo incontro. Ma il nomadismo del mio lavoro sarebbe un ostacolo. Così ho preso questa decisione. Per Elena. E per Emma.
Adesso tocca a voi. Datemi coraggio facendo anche voi dei gesti di coraggio, fatemi fare una full immersion nel coraggio.”
Il primo era stato Gianni. Titolare di un’agenzia di viaggi, Gianni era rimasto il ragazzone del liceo. Palestrato, un po’ vacuo, tutto sport, vacanze, capi firmati, ogni tanto compariva con una ragazza che spariva regolarmente dopo tre o quattro settimane e ogni tanto ci dava buca per infilarsi al Toys ‘n boys o per raggiungere gli amici al Bene e Male. La vita come divertimento sembrava il suo motto. Ma, una sera della settimana successiva, ci consegnò un volumetto elegante dal titolo Dietro la maschera. Erano poesie, l’autore un certo Jean Sepà. Ai nostri sguardi interrogativi spiegò con un sorriso timido di esserne l’autore. Gianni scriveva poesie? La Terra s’era messa a ruotare in senso retrogrado? Ma Gianni confermò, scriveva poesie, quella era una raccolta pubblicata da un piccolo ma ottimo editore. Eravamo tutti sbalorditi.
“E non è finita” aggiunse; “da sei mesi il lunedì pomeriggio leggo per i bambini di un istituto per non vedenti, anzi se qualcuno di voi ha voglia di unirsi, abbiamo bisogno di lettori e intrattenitori ogni pomeriggio. Allì, questo è il mio prestito di coraggio”.
Tre mesi dopo, durante la festa di compleanno di Elena, era stato Marco a esporre il suo prestito. “Cambio lavoro” ci aveva detto “la banca proprio non fa per me. Sono stato fortunato, ero comunque in graduatoria e … mi hanno chiamato dall’Ufficio Scolastico Regionale. È il mio turno, ho la nomina alla Scuola Media di Melline, per ora solo una supplenza annuale, ma si comincia così. Vado a insegnare Lettere ai bambini! Insegno loro la bellezza! Fuori dalla banca, ci pensate? Ti basta questo prestito di coraggio, Allì? A me il tuo è bastato, come vedi. Dai Claudio, non fare quella faccia! Me lo posso permettere, i miei sono ricchi, mi copriranno.” Ma Claudio quella volta lì non aveva detto niente.
Ora siamo di nuovo al La luna muta, tutti e nove. Gianni con Flora, con cui ormai fa coppia fissa. Marco, che dei tempi della banca conserva solo gli occhialetti cerchiati, per il resto, sparite le giacche e le cravatte, viene in jeans, pantaloni di velluto, maglioni; ”Più una muta che una metamorfosi – ama commentare – d’altronde siamo alla Luna muta, no?” Ora sta facendo le smorfie a Paolino detto Pantagruel, di mesi quattro, il prestito di coraggio di Claudio e Lea ad Allì.
Ce lo avevano raccontato emozionati dieci mesi prima, annunciandoci la gravidanza di Lea. “Abbiamo deciso quella sera stessa, grazie al tuo richiamo Allì. D’altronde era un anno che ci accapigliavamo per qualsiasi cosa. In realtà perché Claudio voleva un figlio e io non mi decidevo. Quella notte abbiamo messo le carte in tavola. Fino a che ora abbiamo parlato, amore?”
“Parlato fino alle tre, mi pare. Poi forse s’è fatto più tardi per … l’apertura del cantiere, diciamo…”
“E che Paolino era lì, che aspettava impaziente che ci decidessimo a convocarlo s’è visto subito. Ci ho messo due mesi a rimanere incinta!”
Da dieci mesi mi tormento nell’indecisione. Ormai è il mio turno sono mesi che perdo ogni occasione lasciando che qualcos’altro prenda la scena. C’eravamo visti ancora in mille occasioni, ma ogni volta ho avuto la fortuna che qualcos’altro prendesse la scena. Prima le discussioni sui lavori di adeguamento della lavanderia, tramezzi, arredi, preventivi. E poi il nome! Ne avevamo inventati e scartati decine. Il procione, proposto da Marco, aveva scatenato una valanga di pernacchie, e poi Il salotto di Marsiglia, l’improponibile Profumo di sapone e aroma di caffè inventato da Lea, poi a turno Il mastello, La pietra di marmo, L’accademia del pulito, Via la macchia. Ma alla fine l’aveva trovato Elena: Ciccheciacche.
Stasera ho deciso: sarà la mia svolta. Certo, il mio gesto di coraggio non lo posso esibire a questo tavolo affollato. Le dichiarazioni d’amore vogliono intimità e penombra. Ma stasera fisserò una scadenza, un ultimatum alla mia codardia. Osservo Allì: anche se le si sono già un po’ modificate, se le dita non sono più sottili come qualche mese fa, continua a muovere le mani come una flamenguera mentre con quell’adorabile gesto si sistema la corta ciocca dietro l’orecchio, solo a destra, quasi una ricerca di asimmetria. Il sorriso invece è sempre lo stesso, né più stanco né meno allegro, anzi, s’è aggiunto un non-so-che d’ ironia, specie quando racconta un aneddoto su qualche cliente bislacco della Ciccheciacche.
Mentre ripeto il mio mantra mentale “ora glielo dico, ora glielo dico, ora glielo dico”, d’un tratto a Elena sfugge una ciotola di olive, che si mettono a rotolare dappertutto. Eccola che in preda a un pianto disperato, carponi sotto il tavolo cerca di rimediare il pasticcio, balbettando qualche giustificazione inintelligibile tra i singhiozzi. Allì si china assieme a lei, carezzandola e rassicurandola: “Nulla, Elena, non è grave. Ora raccogliamo tutto, dai!”.
“Ma non lo dici a Vince, vero?”
“No, Elena, non glielo dico”.
Di colpo capisco: non c’entra niente il senso di colpa. C’entra l’amore. Elena è l’ultimo disperato gesto d’amore di Allì. Lei ama questo fantasma, è per lui che sembra così disinteressata agli uomini.
Io l’amo e adesso so che non glielo saprò mai confessare, il nome Vince non è per caso; Vince sta vincendo.
In questo stesso momento, inequivocabile, sento un crampo in basso. Ecco, questo ci mancava. M’è tornato il ciclo.
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