Le bandiere sventolavano, sotto il sole di una giornata limpida e calda. Tutte e tre: europea, italiana e siciliana. Non sembrava nemmeno un mattino di metà autunno, quello di ieri. Ogni tanto il vento le insolentiva, mentre stavamo lì, ad aspettare gli sposi. Nonostante il covid e i timori della seconda ondata. Seconda ondata che ha reso un evento più piccolo – in termini squisitamente numerici – l’unione civile di Massimo Milani e Gino Campanella, nell’anniversario dei terribili fatti di Giarre. Ma non meno importante, per il suo portato simbolico.
L’arrivo degli sposi
Per primo è arrivato Gino. Abito bianco, bastone, veletta e cilindro. Un uomo d’altri tempi. La stampa lo circonda. Anche nella Sala degli specchi, l’aula comunale in cui si è celebrato il rito civile, c’era molto movimento. Giornalisti da accreditare all’ultimo momento, messi comunali implacabili nel rispetto delle regole. Poi Gino è salito. Aspettando il suo sposo. Gli ospiti, non più di trenta come da disposizioni del dpcm, cominciano a prendere posto. Poi arriva una macchina, tra le tante. E una nuvola di stoffa rossa ruba le scene alle bandiere del comune. Massimo guadagna il corso principale, scortato dalle sue damigelle, Genny, Fulvio e Paolo. Di nuovo, è ressa tra giornalisti. Il tempo delle interviste di rito, delle dichiarazioni. Sì, la legge contro l’omo-transfobia è più che urgente. La politica si sbrighi, ricorda. Sennò è complice. Poi si scusa. C’è un matrimonio da celebrare.
Un’emozione che vibra
Nella Sala degli specchi, Massimo è visibilmente emozionato. Lui, che in quarant’anni da quei fatti di Giarre ne ha viste praticamente di tutti i colori. Eppure sembra essere lì, sull’ingresso di quella stanza, con gli occhi lucidi, che tutto assume un ulteriore significato. Quella marcia, alla fine, è un traguardo. È lo spartiacque tra un prima e un dopo. Immagino che ogni passo verso le poltrone nuziali venga accompagnato da tutta la vita che scorre davanti. Non come atto conclusivo, ma come acquisizione di consapevolezza. Se siamo qui, oggi, è perché è successo quel che è successo. Nel bene e nel male. E non c’è nulla che ci ha separato. Sì, forse è questo che succede. Gli occhi di Massimo incrociano i miei. E come per una sorta di legge della fisica, per cui una vibrazione fa vibrare un corpo che gli è vicino, mi commuovo anch’io. Poi penso al mio maquillage. Ho una brutta dermatite che mi deturpa il volto. E, Dio, non so se il fondotinta è waterproof.
Il momento del sì
Al momento del sì, gli sposi si voltano verso il pubblico. Diversi gli applausi. Tanta l’emozione, anche tra invitati e invitate. A celebrare è stato il sindaco in persona, Angelo D’Anna, che ricorda nel suo discorso i terribili fatti da cui tutto ha preso il via. Ed è per questo che ringrazia Massimo e Gino. Non solo perché ha fatto il suo dovere in un giorno lieto, ma perché quell’unione civile – ricorda ancora il primo cittadino – questo “lieto fine” permette di recuperare l’omicidio di Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola e prova a ricucire una ferita lunga quarant’anni. «Le lotte delle minoranze» dice ancora il sindaco «creano spazi di libertà di cui tutta la società si avvale. Per questo per me è un onore celebrare questa unione civile».
In memoria di Giorgio e Antonio
Poi arrivano gli interventi del pubblico. Amici e testimoni che ricordano il significato politico di questa unione o che raccontano aneddoti. Paolo Patané, ex presidente nazionale di Arcigay e giarrese, che non solo ringrazia l’amministrazione comunale e i due sposi, ma che ammette – anche lui, visibilmente commosso – di sentirsi finalmente a casa. Di sentirsi pienamente parte della comunità in cui è nato. Ed è come se fossero lì, Giorgio e Antonio, a osservare il tutto. Forse sotto il balcone della sala, forse in uno dei balconi. Mano nella mano. Perché tutto questo, ed è voce comune, è stato fatto anche per loro due.
A quarant’anni dai fatti di Giarre
Furono trovati in avanzato stato di decomposizione, dopo diversi giorni dalla loro scomparsa. Un proiettile in testa. Mano nella mano. Un omicidio a sfondo omofobico. In un contesto culturale in cui l’omertà per quello che era successo, e la complicità per il clima culturale che aveva portato a quel delitto, erano ai massimi livelli. L’omicidio di Giorgio e Antonio portò a una grande indignazione, in paese e nel Paese. Fu così che nacque Arcigay, a Palermo – e proprio anche grazie a Massimo e Gino. Quarant’anni dopo il ritrovamento dei corpi, Giarre recupera quella ferita amarissima. E che a farlo siano le massime istituzioni cittadine è un segnale importantissimo. E che in quel nuovo “prima e dopo” ci sia il perpetuarsi di una promessa, è salvifico. Nel senso più letterale del termine. Perché porta salvezza. A chi, ascoltando quella storia e guardando al presente, può capire che un altro finale è diverso. Che il lieto fine – o un nuovo inizio, se preferite – è comunque a portata di mano.
La vita, senza alternativa alcuna
Forse devono aver pensato questo i due ragazzi di un liceo locale, venuti ad assistere alla cerimonia, mentre aspettavano gli sposi fuori dal comune. Emozionati anche loro, ma senza alcuna velatura di malinconia nei loro occhi. Quella è roba da ultraquarantenni, come me. No, c’era ardore semmai, quello sì. Per tutto ciò che può avvenire. Chiedono una mascherina arcobaleno. Quindi una foto con gli sposi. Sì, per loro, per ciò che potranno raccontare un giorno, c’è un unico finale possibile: la vita. Piena, gravida di futuro. Senza alternativa alcuna. Un’inversione di tendenza sostanziale, rispetto ad un’antica narrazione di infelicità. L’incantesimo malvagio, insomma, si è rotto.
L’ultimo omaggio
Non c’è stata una festa, come da tradizione. Non è stato possibile. Ma è stata comunque una festa. Poi, al tramonto, l’ultimo omaggio. Al cimitero, sulla tomba dei due ragazzi. Le loro foto ti guardano, dalla lastra di marmo, in mezzo al silenzio circostante. L’Etna sullo sfondo, lo sbuffo di cenere e il tramonto alle sue spalle. Il fuoco, che dal cuore della terra conquista il cielo e il mondo tutto intorno. Vedo, in tutto questo, una irriducibile continuità. Un simbolo involontario. Posano i fiori sulle lapidi, Gino e Massimo. Il bianco e il rosso dei loro vestiti spiccano su tutto. Ci guardano, Giorgio e Antonio. Non nella stessa tomba, non è stato possibile. Ci guardano e non c’è molto da dire. Ma quei fiori sono lì. La vita continua ed è possibile un finale diverso. La ferita è stata ricomposta, anche se la cicatrice rimarrà sempre. Ma il futuro, adesso, è possibile. Per molti e molte. E il tramonto, non è altro che la promessa di un giorno che verrà. Il matrimonio di Massimo e Gino significa questo.