Le bandiere sventolavano, sotto il sole di una giornata limpida e calda. Tutte e tre: europea, italiana e siciliana. Non sembrava nemmeno un mattino di metà autunno, quello di ieri. Ogni tanto il vento le insolentiva, mentre stavamo lì, ad aspettare gli sposi. Nonostante il covid e i timori della seconda ondata. Seconda ondata che ha reso un evento più piccolo – in termini squisitamente numerici – l’unione civile di Massimo Milani e Gino Campanella, nell’anniversario dei terribili fatti di Giarre. Ma non meno importante, per il suo portato simbolico.
Nella Sala degli specchi, Massimo è visibilmente emozionato. Lui, che in quarant’anni da quei fatti di Giarre ne ha viste praticamente di tutti i colori. Eppure sembra essere lì, sull’ingresso di quella stanza, con gli occhi lucidi, che tutto assume un ulteriore significato. Quella marcia, alla fine, è un traguardo. È lo spartiacque tra un prima e un dopo. Immagino che ogni passo verso le poltrone nuziali venga accompagnato da tutta la vita che scorre davanti. Non come atto conclusivo, ma come acquisizione di consapevolezza. Se siamo qui, oggi, è perché è successo quel che è successo. Nel bene e nel male. E non c’è nulla che ci ha separato. Sì, forse è questo che succede. Gli occhi di Massimo incrociano i miei. E come per una sorta di legge della fisica, per cui una vibrazione fa vibrare un corpo che gli è vicino, mi commuovo anch’io. Poi penso al mio maquillage. Ho una brutta dermatite che mi deturpa il volto. E, Dio, non so se il fondotinta è waterproof.
Poi arrivano gli interventi del pubblico. Amici e testimoni che ricordano il significato politico di questa unione o che raccontano aneddoti. Paolo Patané, ex presidente nazionale di Arcigay e giarrese, che non solo ringrazia l’amministrazione comunale e i due sposi, ma che ammette – anche lui, visibilmente commosso – di sentirsi finalmente a casa. Di sentirsi pienamente parte della comunità in cui è nato. Ed è come se fossero lì, Giorgio e Antonio, a osservare il tutto. Forse sotto il balcone della sala, forse in uno dei balconi. Mano nella mano. Perché tutto questo, ed è voce comune, è stato fatto anche per loro due.
Forse devono aver pensato questo i due ragazzi di un liceo locale, venuti ad assistere alla cerimonia, mentre aspettavano gli sposi fuori dal comune. Emozionati anche loro, ma senza alcuna velatura di malinconia nei loro occhi. Quella è roba da ultraquarantenni, come me. No, c’era ardore semmai, quello sì. Per tutto ciò che può avvenire. Chiedono una mascherina arcobaleno. Quindi una foto con gli sposi. Sì, per loro, per ciò che potranno raccontare un giorno, c’è un unico finale possibile: la vita. Piena, gravida di futuro. Senza alternativa alcuna. Un’inversione di tendenza sostanziale, rispetto ad un’antica narrazione di infelicità. L’incantesimo malvagio, insomma, si è rotto.
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