Quando il giudice di Mosca ha sentenziato che deve tornare in Uzbekistan, Hudoberdi Nurmatov, che scrive per Novaja Gazeta con lo pseudonimo di Ali Feruz, ha tentato il suicidio. Gay, attivista per i diritti civili, Nurmatov ha detto “Preferisco morire piuttosto che tornare lì”. Poi ha afferrato una penna ed ha tentato di tagliarsi le vene. L’intervento degli agenti presenti nell’aula del tribunale ha impedito che ci riuscisse.
In Uzbekistan l’omosessualità o, come recita la legge locale, la sodomia è un reato: tornare in quel paese, per il giovane giornalista, significherebbe rischiare la prigione.
Il reato che, invece, gli è stato contestato a Mosca riguarda la legge sull’immigrazione russa. Il ragazzo, nato e cresciuto in Russia da famiglia di cittadinanza russa, aveva ottenuto quella uzbeca quando, a 17 anni, si trasferì in Uzbekistan.
I guai sono iniziati quando si è rifiutato di diventare una spia dei servizi segreti. Era il 2008 e Nurmatov venne incarcerato e torturato. Riuscito a scappare, era tornato in Russia dove aveva chiesto asilo politico. Inutilmente. La sua richiesta, del 2014, era stata rifiutata e il ragazzo aveva appena presentato ricorso.
Ad un controllo dei documenti, però, era scattato il nuovo procedimento. E ora il giudice russo ha stabilito che debba tornare nel paese in cui è stato torturato e in cui il suo orientamento sessuale lo porrebbe in serio rischio di vita.
Secondo quanto riporta Repubblica, a fianco di Nurmatov si sono schierati non sono Amnesty International, ma anche Dmitrij Muratov, direttore di Novaja Gazeta, e l’Unione dei giornalisti russi. Tutti fanno appello al fatto che il giornalista è nato in Russia e quindi non può essere espulso. Inoltre, nel paese dove dovrebbe rientrare rischia di essere nuovamente sottoposto a tortura oltre che di finire in carcere per fatto di essere gay. Condizione, a dire il vero, non semplice neanche in Russia. Sotto Putin, infatti, una legge che vieta la “propaganda omosessuale” e il livello di omofobia nella società è molto elevato.
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