Pubblichiamo oggi la lettera aperta di un uomo di genere non binario, che racconta di essere stato un bambino gender creative. Qual è stato il suo percorso di esplorazione del maschile e cosa chiede, oggi, allo Stato?
di Ethan Bonali
“Non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento,
Senza avere soggiornato a lungo in uno stato di estrema e totale umiliazione” S. Weil
So di avere una identità per lo Stato italiano e che questa mi garantisce l’accesso a tutti i miei diritti. La società e la legge richiedono una controparte in cambio dell’inclusione ma il prezzo che mi è stato chiesto non è stato congruo.
Ho pagato con la rinuncia alla libera espressione, con l’esercizio ossessivo e continuo della simulazione del genere.
La tensione si scioglieva non appena prendevo in mano un giocattolo da bambina. Uno degli aspetti più difficili della mia infanzia è stato proprio il dover controllare continuamente le mie azioni, gesti ed espressioni per sembrare una “bambina normale”.
Il mio spazio vitale era ridotto sotto la mia pelle.
Ai tempi non me rendevo conto ma stavo “agendo il genere” ed ero, invece, consapevole che si trattasse di una recita, di ripetere una serie di comportamenti e aspettative delle quali non sapevo ma che intuivo. Ero queer senza saperlo, ero un bambino gender creative.
Divieti insensati ai miei comportamenti e desideri, rinunciare a vivere il mio genere per essere accettato e la tensione permanente di chi non deve essere scoperto, fecero di me un bambino depresso ed anche questo di nascosto.
Ero un bambino che rifletteva molto da vicino sulla morte ma che non aveva il coraggio di uccidersi. Ed ero un bambino che si vergognava del suo desiderio di morire.
Ero nell’impossibile e mi era necessario trovare una soluzione che la norma non mi avrebbe fornito.
Scelsi di sperimentare i limiti di comportamento maschile concessi alle bambine.
Divenni capobanda di un gruppo di bambini del quartiere, tentavo di avere un abbigliamento quanto più maschile mi fosse concesso, giocavo a pallone, costruivo capanne… Ero un selvaggio.
Sono stato una bambina con “grande personalità”.
La maestra non riusciva a collocarmi né tra i bambini né tra le bambine.
Ho intrecciato e confuso la mia esperienza, la mia libertà e le mie aspirazioni, l’oppressione del mio genere e l’oppressione del genere femminile.
La lotta per esprimere la mia parte maschile è passata attraverso una battaglia femminista. Quello che la società non riusciva a riconoscere perché inesistente nella concezione binaria del genere (si può essere solo o maschi o femmine, ndr), veniva attribuito ad una emancipazione femminile. Come per la maestra, per tutti ero una “donna di grande personalità”.
La cosa non mi dispiace, ma si deve essere consapevoli della continua invisibilizzazione che viene operata su quelli come me. Veniamo spinti dentro altre categorie: lesbiche, maschiacce etc. La mascolinità femminile, o la mascolinità non legata al corpo maschile, o comunque non comunemente intesa viene negata e nascosta.
Mi rendo conto che la mia esplorazione del maschile ha avuto un percorso molto simile a quello femminista. Attraverso il corso della mia vita ho vissuto una mascolinità oltre il corpo maschile. Ho ricavato per esperienza tutti quegli aspetti maschili scartati dalla narrazione maschile di maggioranza.
Ho portato il mio corpo al punto di rottura tra i due sessi, al confine, in tensione.
Ho ricavato lo spazio tra i due generi e tra due modelli di corpo.
La mascolinità tossica, quella comunemente riconosciuta come tale, è stata ed è una grande tentazione poiché eviterebbe una serie di frustrazioni quotidiane dovute ad una cultura che non supera il dualismo uomo/donna, maschio/femmina, l’attribuzione del maschile e del femminile esclusivamente a certi tipi di corpo.
Ma cedere a quella mascolinità sarebbe come cadere nel vuoto.
So di essere appeso ai due e il corpo è lo spazio tra i due.
Io non sono né uomo né donna e questa condizione è permanente.
È un genere.
Quello che chiedo allo Stato italiano, attraverso la scelta di una terza opzione di genere/sesso nei documenti di identità, è di uscire dal binarismo di genere e di riconoscere la complessità della realtà.
Chiedo che si riconosca il diritto al genere e all’autodeterminazione, sanciti a livello europeo ormai da diversi paesi e richiamato nella risoluzione 2048 del PACE (Parliament Assembly Council of Europe) eliminando l’obbligo di diagnosi, lesivo della dignità personale, e la pratica pericolosa e inutile dell’esperienza di vita reale per provare di desiderare veramente di cambiare sesso.
Questa pratica è giustificata dagli addetti ai lavori come utile per comprendere la propria natura e la persistenza del desiderio di cambiare genere, ma mette in pericolo di aggressione e sottopone a forte stress e disagio la persona costretta a farlo. E tale stress può far desistere.
Serve più a chi ha il potere di decidere che a tutelare la persona che chiede un cambiamento.
Il mio genere, non la mia identità di genere, non è politica: è reale.
È politica la scelta di imporre un iter per accedere al diritto di sviluppare la propria personalità secondo le proprie inclinazioni,
Politica è la scelta di mantenere una costruzione culturale.
È politico l’uso della scienza medica, della psicologia e della psichiatria per controllare i corpi e i generi attribuendo loro il potere di verificare e di decidere, confondendolo col giuridico, e il potere di confermare o negare un genere.
Chiedo che questo potere non sia più riconosciuto.
Chiedo di essere riconosciuto come una persona consapevole di ciò che è.
Chiedo di non vivere mai più sotto la pelle.
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