Nella quinta stagione di Sailor Moon, impropriamente ribattezzata per la versione italiana Petali di stelle per Sailor Moon, troviamo i personaggi delle Sailor Starlight. Queste ultime guerriere, in borghese, sono uomini a tutti gli effetti. Un po’ androgini, ok. Depilatissimi (o forse glabri), va bene: ma d’altronde l’anime della Toei Animation non ha mai brillato per nerboruti simil-bear come personaggi maschili. Insomma, i tre – che da “umani” erano tre baldi giovinetti molto cool – ad un certo punto prendevano un medaglione a forma di stella e si trasformavano in tre combattenti che non vestivano alla marinara, ma da mistress. Tre donne, sensualissime, conturbanti, con le tette (ma senza gonne). Agevolo un breve video per capire di cosa stiamo parlando:
Perché dico questo? Ha a che fare con le ultime dichiarazioni di J.K. Rowling.
A tal proposito, facciamo adesso un esempio: semplice semplice, che può capirlo pure un terf. Facciamo finta che io cominci la transizione e ho ancora la barba. Perché ho scelto il percorso medicalizzato (e si badi, non è l’unico possibile), che però non è immediato. Si sa. La mia identità, tuttavia, è femminile. Ci vorrà un po’ prima che ciò che sento e ciò che vedo si allineino in un’unica immagine. Però, magari, vorrò che mi si dia del lei, al femminile. Quindi arriva una terf (appunto) che al lavoro mi chiama al maschile — che per capirci, è un po’ come se ad un gay lo chiami al femminile, per disprezzo — solo perché: uno, ho ancora i segni della barba; due, per lei le donne trans sarebbero uomini che usurpano l’identità femminile. Chi è che ci fa una figura poco felice? Io che ho ancora la barba, lei che usa il femminismo come clava contro la vita delle persone (transgender, nello specifico) e/o Rowling che mette il like a tutto ciò?
Insomma, la transizione è una cosa seria e delicata. E, come ci insegna la professoressa Graziella Priulla, bisognerebbe entrare nella vita delle persone in punta di piedi. Non con la clava dell’ideologia fine a se stessa, per capirci. Anche perché, come abbiamo già visto, l’unica transizione che avviene per magia è quella delle Sailor Starlight e il mondo, purtroppo, non è il posto in cui basta lo scettro lunare per risolvere i problemi, sconfiggere il sovranismo e rimettere a posto le cose. Mi si dirà, allora, che anche in Ranma 1/2 era facile passare da un genere all’altro, ma anche lì, non siamo in un anime. La vita reale è molto più complessa. E questa complessità andrebbe conosciuta, prima ancora di parlarne con superficialità.
Adesso, si ha la sgradevole sensazione che la Rowling abbia alcuni problemi a riconoscere le persone non conforming. Quindi, in particolare, sembra che abbia alcuni problemi nello specifico con le donne trans (si pensi ai vari like messi sui tweet di altre terf, poi smentiti). Insomma, il problema sembra essere a monte: parlando di due sessi soli (e sarebbe il caso di superare certi binarismi) sembra che l’autrice della famosa saga non riconosca altro. Ma questa rigida distinzione, con il corredo di discriminazioni che si porta dietro, non è forse un grosso favore che si può fare al patriarcato?
Questa storia della signora Rowling, ancora, sorprende non solo per il suo avallo a posizioni che andrebbero stigmatizzate sempre e comunque – il femminismo trans-escludente, mi dicono le mie amiche transfemministe, non è femminismo ma questo è un discorso che vorrei lasciare alle addette al settore, limitandomi a segnalare i termini del dibattito – ma anche per le reazioni di chi, trovandosi di fronte a quelle parole, ha reagito minimizzando. Basta farsi un giro veloce sui social per vedere che non appena il mito di turno pesta il merdone della dichiarazione infelice, è subito un levarsi di scudi: «non vi va mai bene niente», «ha scritto Harry Potter!», «basta con anatemi e scomuniche» et similia.
Mi perdoneranno i miei venticinque lettori (c’è citazione) se riapro, a questo punto, vecchie ferite. Ma, appunto, non è la prima volta che personaggi molto amati nel mondo della musica, dello spettacolo e del cinema ci deludono con affermazioni poco felici. O anche per i loro silenzi. Due nomi per tutti: Carmen Consoli, che nonostante abbia avuto un figlio con una procreazione assistita ci ha ricordato che è meglio la famiglia tradizionale – e ringraziano, dunque, tutte le altre che si sottraggono a questa definizione – e Gianna Nannini, che mai una parola ha detto a sostegno della comunità Lgbt salvo poi andarsene in Inghilterra a sposare la compagna, per meglio tutelare la sua famiglia. Anche in quei casi, a giuste proteste si sono contrapposte aprioristiche levate di scudi. Il big di turno non si tocca…
È inevitabile, tuttavia, che certe omissioni e certe parole generino reazioni. Ma sembra che dentro la nostra comunità ci siano sfere di intoccabilità o di insofferenza, quando ad esser criticato non è l’omofobo di turno, ma il nostro paladino. Eppure dovrebbe valere un principio base e dovrebbe valere per chiunque: se dici qualcosa che offende la dignità di una persona, quel “qualcosa” può essere – e, in certi casi, deve – essere stigmatizzato. Perché quando sei famoso/a e riversi disprezzo, più o meno consapevole, contro soggetti fragili, rischi di far molto male. Perché “fai scuola”. Crei opinione. Poi, ciò non vuol dire che si debbano prendere i libri dell’autrice di Harry Potter e bruciarli in piazza. O smettere di sentire Parole di burro o Fotoromanza (personalmente, continuo ad ascoltare le due cantanti, pur continuando a pensare che sulle questioni Lgbt+ abbiano idee lontanissime dalle mie). Quelle sono scelte personali, di tutto rispetto, anche in caso di boicottaggio, va da sé. Ma il diritto di critica è, appunto, un diritto. E va esercitato.
Adesso, per capire quanto è irricevibile l’appoggio di J. K. Rowling alle istanze terf, faccio notare un ulteriore paradosso di tutta questa vicenda: l’autrice della saga di Harry Potter, ricordiamolo, ha usato le iniziali del suo nome per nascondere la sua identità sessuale. Perché una donna che scrive fantasy – le avevano detto – sarebbe risultata poco credibile. Le iniziali avrebbero fatto pensare a un uomo e lei avrebbe venduto di più. Anche lei, insomma, ha “giocato” (permettetemi questo termine) col genere e con la sua fluidità. E non per questioni di identità, ma per puro profitto. Anzi, a voler essere duri, possiamo dire che ha assecondato la cultura maschilista per avere successo. È irricevibile, dunque, che si scagli contro esseri umani che lottano per affermare chi sono e non certo per interesse economico. Se ci limitassimo a vedere questo aspetto invece di farne una questione di tifoserie contrapposte, forse avremmo elementi in più per fare del dibattito qualcosa di serio. E non il solito cicaleccio da web. Converrete.
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