C’è un’immagine che mi torna in mente, ogni volta che, con la mente, torno alle luci accese all’arco della pace a Milano, o a quelle più recenti di Brescia, in segno di protesta contro l’affossamento del ddl Zan. Ed è la scena del funerale di Silente, in “Harry Potter e il principe mezzosangue”, quando maghi e streghe puntano in alto le bacchette e inondano il cielo di luce. C’è dolore e rabbia, in quel gesto. Ma è l’inizio di una rivolta. Il germe della ribellione si nasconde sempre dentro il guscio della sopraffazione. Stonewall ce lo ha insegnato, d’altronde. Ieri al Palermo Pride ho sentito questo anelito.
Una nuova visione, nuove identità
Non è stata l’unica piazza, quella di ieri. Brescia, Perugia, Cagliari, Genova, Bologna e tante altre città hanno portato in strada decine di migliaia di persone. Erano 30.000 solo nel capoluogo siciliano. E ce ne saranno altre, di manifestazioni, fino all’evento previsto a Catania per il 7 novembre. Che hanno raccolto e raccoglieranno libera cittadinanza, realtà arcobaleno, associazioni, partiti. Una fetta ampia e rappresentativa di quella società civile che non solo il ddl Zan lo voleva, ma che si fa portavoce di una nuova visione, radicalmente alternativa a quella “tradizionale” ancora incarnata su squilibri profondi tra identità (al singolare) e diversità (al plurale). Dove l’identità è rappresentata dal paradigma eteronormativo che, nella migliore delle ipotesi, concede diritti a metà. E dove le diversità sono abitate dalle realtà “divergenti” (Lgbt+, femminismi includenti, realtà migranti e disabili, allies, ecc) che chiedono maggiore rappresentanza e mettono in discussione i tradizionali equilibri di potere.
Palermo Pride, un solo grido: “Vergogna”
È una rabbia che monta, che occupa le piazze, che fa urlare “vergogna” in direzione di un Senato che ha mandato al macero il ddl Zan. Un disegno di legge che chiedeva solo dignità per tutti e tutte, e una narrazione nuova. Non più quella di una comunità che chiede concessioni, di non essere più vilipesa; ma il diritto a vedere riconosciuta la propria identità e, in virtù di questo, non essere più discriminata o offesa (con parole o atti violenti).
Una mediazione che toglie dignità
Non è un caso che le forze conservatrici presenti al Senato abbiano rigettato un ddl simile. Che rappresenta un minimo sindacale, siamo d’accordo, ma che andava in direzione di un riconoscimento oggettivo. E che si strutturava, tra gli altri, sui concetti di orientamento sessuale e identità di genere. Meglio tornare alla “charte octroyée” della legge Scalfarotto, che concede senza conferire dignità. Era questa la mediazione richiesta. Come ai tempi delle unioni civili. Alcuni diritti essenziali, al prezzo di un’umiliazione (si veda il capitolo omogenitorialità). I renziani non sanno andare oltre questa concezione dei diritti civili: è il loro DNA politico. E, appunto, hanno accolto le istanze delle forze più conservatrici, a cominciare dalle femministe trans escludenti. La piazza, invece, ci racconta un’altra storia.
Cosa raccontano il Palermo Pride e le altre piazze
La storia che ci racconta il Palermo Pride, insieme alle altre, è quella di una massa critica che smentisce chi, tra partiti omofobi, tra maestranze renziane e pseudofemminismi reazionari, racconta che molte persone Lgbt+ quella legge non la volevano. Perché le piazze a favore del ddl Zan ci restituiscono una realtà radicalmente diversa. E non le abbiamo viste le piazze contrapposte, con tanto di arcobaleni, a dire il contrario. E no: i Cerno, gli Scalfarotto, le Concia e le quattro attiviste di Arcilesbica non fanno statistica. Sono, semmai, bug di sistema. Gente che ormai puoi vedere meglio a un family day che a un pride. Perché ormai gli schieramenti sono chiari. E il confine, nettissimo, tra i due è quello tra chi vuole la piena dignità e chi vuole mediare su di essa con chi è capace di parole orribili e di applausi tanto scroscianti quanto volgari. È il confine che c’è tra una famiglia arcobaleno e un post di Pillon.
Il voto segreto che protegge l’odio
La storia che ci raccontano le piazze di ieri, e quelle di qualche giorno fa a Roma e a Milano, è quella di un’inversione: un tempo eravamo noi a nasconderci, per paura della reazione della società. Adesso sono i 154 senatori a chiedere il voto segreto, per far passare una scelta omo-bi-lesbo-transfobica. Una scelta che protegge l’odio e insulta un’intera comunità. Una comunità fatta non solo da persone Lgbt+, ma anche di chi scende insieme a noi in quelle piazze e magari non ha mai masticato di “questioni rainbow”. Ma che ha fin troppo evidente la dimensione dello strappo che si è consumata al Senato tra paese reale e giochi di partito.
Traditori della democrazia e della dignità
Chi sono i traditori rispetto alla domanda di democrazia e dignità di questa parte della società è fin troppo chiaro. Nonostante gli ululati alla luna di chi si sta sbracciando sui social per far ricadere le responsabilità su altri. Ma i nomi li conosciamo e sono quelli di chi, dopo il 4 novembre 2020, ha popolato le pagine della stampa, soprattutto quella nemica, di continui distinguo e prese di posizione. E sono i nomi di quei leader che hanno indebolito, a Palazzo Madama, il ddl con irricevibili proposte di mediazione. Sulle nostre vite e la dignità di cui sono meritevoli.
Letta e gli altri davanti a un bivio
Ma c’è un’altra evidenza, se vogliamo. E si manifesta sotto forma di domanda, alla classe politica. Quella che il ddl lo ha sostenuto, almeno. Letta e i leader dei partiti più friendly sulla scena sono, insomma, di fronte a un bivio. Devono scegliere a chi dare ascolto. Se a quelle piazze o a chi ha fatto i distinguo sulla stampa cattolica e di destra, anche becera. Le piazze di ieri gridano anche questo. Con rabbia e delusione, ma senza livore. Puntando le luci al cielo e, come nel caso del Palermo Pride, facendo urlare anche la gioia.