È appena uscito in libreria, edito per Fernandel, il romanzo L’abbandonatrice di Stefano Bonazzi. Lo scrittore, classe 1983, è ferrarese ed è al suo secondo romanzo. Lo abbiamo intervistato per farci sapere di più del suo nuovo libro: «Racconta di tre ragazzi e del loro percorso di crescita dagli anni Ottanta ad oggi» racconta a Gaypost.it. «Racconta l’ansia, le paure, le insicurezze e il perenne senso di competizione di una generazione senza coordinate».
Partiamo da una domanda semplice: di cosa parla il tuo libro?
Davide, Oscar e Sofia, hanno in comune un forte impulso creativo. Davide sogna un futuro da fotografo, Oscar deve seguire le orme del padre e affermarsi come pianista jazz, mentre Sofia è un’abile illustratrice. In coda per l’iscrizione al primo anno di università, Davide viene travolto dal primo di una lunga serie di attacchi di panico e Sofia sarà la prima a soccorrerlo. Oscar assiste alla scena e dopo alcuni giorni decide di contattarlo per sapere come sta. I tre ragazzi si fiutano a pelle: sanno che qualcosa li lega ma non riescono a capire se si tratta di attrazione o fobie comuni ma tra loro si instaurerà presto un legame morboso.
Nella trama si evince la ricomposizione di un nucleo familiare, tra Diamante, Davide e il suo compagno. È una scelta precisa, per parlare del tema della genitorialità?
Nella seconda parte del romanzo, quando Diamante, dopo il suicidio di Sofia, irrompe nella vita di Davide e Oscar, entrambi hanno già superato i trent’anni e stanno attraversando un periodo delicato: Davide non ha abbandonato il suo sogno di diventare un fotografo affermato, ma alcuni problemi con il compagno gli impediscono di dedicarvisi a tempo pieno. L’affidamento improvviso di un sedicenne scontroso e omofobo viene percepito come una sorta di maledizione… Più che della genitorialità, questo libro mostra il rifiuto ad essa.
Una scelta in controtendenza, di questi tempi. Sei contrario all’omogenitorialità?
La storia di Sofia ha un fondo di verità, quindi volevo trattarla nel modo più simile possibile a quanto è successo realmente. Essere genitori una scelta che a me spaventa molto, perché personalmente non mi sento ancora pronto. Forse, da questo punto di vista, somiglio molto a Davide. Va da sé che, a prescindere dalle mie paure, sono assolutamente favorevole.
«“Qualcosa” mi basterebbe, sarebbe già un inizio. Qualcosa fa meno paura e, soprattutto, qualcosa è l’opposto di niente…» è una frase del tuo romanzo. Quel “qualcosa” appare come antidoto alla solitudine e alla mancanza di senso nella vita di tutti noi. Come ti relazioni con quel senso di vuoto interiore?
Fornendo tre punti di vista diversi che mutano durante tutto l’arco temporale del romanzo. Appena si conoscono, ancora ventenni, Davide rappresenta l’anello debole del trio, il timido e perenne insicuro. Oscar invece è l’affascinante pianista carismatico, immune da ogni frecciatina lanciatagli dalla cupa e introspettiva Sofia. Sono tre caratteri all’apparenza incompatibili, ma destinati a incastrarsi come pezzi di un puzzle. Nella seconda parte del romanzo queste personalità sono profondamente cambiate e, inoltre, viene introdotta una quarta prospettiva: Diamante. Il ragazzo è la visione cinica e disillusa, il punto di vista più contemporaneo.
Nel libro è affrontata la tematica dell’omofobia. In che modo tocchi la questione?
Davide vive la sua omosessualità come una condanna. Un “difetto” da comprimere e oscurare anche se non è mai stato vittima di bullismo o violenze. Invece Oscar ha reso la sua omosessualità il suo punto di forza. Vengono da due famiglie profondamente diverse, i genitori di Davide rispecchiano una borghesia tipica di quegli anni, fatta di reciproca invisibilità, mentre il padre di Oscar – in quanto musicista – si preoccupa solo della sua formazione artistica. Eppure, paradossalmente, la figura all’apparenza più omofoba di tutto il romanzo è Diamante. Il ragazzo non perde occasione per schernire e insultare Davide, anche se scopriremo che quest’astio ha ben poco a che vedere con il suo orientamento sessuale.
Passando all’attualità: langue da tempo una legge contro l’omo-transfobia. Come vedi il futuro della nostra comunità da qui ai prossimi anni?
Penso che stiamo facendo progressi, la mia visione resta positiva. Proprio quest’estate ho assistito ad un’unione civile a Fermo, una cittadina di 35.000 abitanti che ha accolto l’evento con entusiasmo e calore. Ho percepito rispetto e sincera partecipazione non solo dai familiari degli sposi ma anche da moltissime persone della città. Certo, c’è ancora molto su cui lavorare, sia a livello di mentalità sia legislativo e non tutte le aree d’Italia possono vantare di tali aperture. Bologna, da questo punto di vista, ha molto da insegnare ed è anche per questo motivo che ho deciso di ambientare gran parte del romanzo nella città che amo più di ogni altra.
A chi è rivolto il tuo romanzo? E quale messaggio vuoi trasmettere a lettori e lettrici?
Per anni ho vissuto in prima persona il problema degli attacchi di panico. Non si tratta solo di una mano che trema all’improvviso, del fiato corto o di una bocca che balbetta. È una vera e propria malattia debilitante che può colpire adulti e ragazzi. La depressione, la mancanza di stimoli, l’ansia da competizione perenne, le incomprensioni sociali, l’incapacità di assumersi delle responsabilità sono altri temi che affrontano i protagonisti. Non tutti ci riescono e ognuno si affida a mezzi diversi, ma quello che vorrei far capire al lettore è che ogni situazione, anche la più ostica e pericolosa, può regalare scorci di luce se si riesce a dare un nome alle proprie paure.