Il caso del cardinale Pell, incriminato in Australia per abuso su minori, è l’ultimo di una lunga catena di fatti di pedofilia e di reati sessuali che hanno per protagonisti alti prelati e che si sono consumati all’interno di un contesto – quello ecclesiastico – il cui comportamento è stato ondivago, tra reazione nei confronti dei fatti e copertura. La notizia perciò, sebbene possa sgomentare al pensiero di eventuali violenze, non è purtroppo qualcosa che ci sorprende. Sorprende, invece, la non reazione di chi fino a oggi ha ostacolato le leggi per le persone Lgbt mettendo al centro un presunto “interesse del bambino”. Ma andiamo per ordine.
Il caso di George Pell
Il cardinale George Pell è il più alto esponente della chiesa cattolica mai coinvolto in casi come questo. Egli, dichiarandosi innocente, ha preso un periodo di aspettativa per poter tornare nel suo paese e potersi difendere. Sia ben chiaro: la presunzione di innocenza è qualificante di qualsiasi stato di diritto, per cui nessuno – al di fuori della corte che deciderà sul caso – può arrogarsi l’ardire di esprimersi in merito. Ovviamente, c’è da augurarsi che il prelato sia estraneo alla cosa, per tutta una serie di motivi facilmente immaginabili. La Santa Sede ha intanto dichiarato di nutrire rispetto per la giustizia australiana. Quindi, nel caso specifico, ogni giudizio va sospeso fino a sentenza definitiva.
I fatti di Boston
Non si possono, invece, chiudere gli occhi rispetto ad altri casi. Si pensi, ad esempio, all’inchiesta da parte del quotidiano The Boston Globe nel 2002, in cui si parlava di una condanna a dieci anni di prigione per John J. Geoghan, un prete accusato di violenze su un bambino di dieci anni. Il caso di Boston si allargò a macchia d’olio e il giornale pubblicò i resoconti di denunce, condanne e coperture di casi di pedofilia perpetrati da esponenti del clero cattolico. Nella sola cittadina americana si registrarono ben 89 sacerdoti accusati e oltre 55 preti rimossi dal loro incarico per fatti simili. L’inchiesta stabilì le responsabilità di Bernard Francis Law: il vescovo locale, pur sapendo, aveva cercato di coprire i preti coinvolti.
Le accuse a Ratzinger
Qualche anno dopo, nel 2006, viene prodotto il documentario Sex crimes and the Vatican, di Colm O’Gorman. Il video accusava di complicità la chiesa rispetto ai crimini di pedofilia. Secondo il regista, infatti, le istituzioni religiose obbedivano a un copione fisso rispetto alla scoperta dei fatti: una volta che si appurava una violenza, il sacerdote incriminato veniva trasferito da una parrocchia a un’altra, permettendo così di poter continuare con gli abusi. Allo stesso tempo, il documentario faceva vedere come le vittime venivano minacciate o ridotte al silenzio da parte delle gerarchie. Si sottolineavano, infine, le responsabilità dell’allora cardinale Joseph Ratzinger che nel 2001, con la lettera De delictis gravioribus, ribadiva il controllo della chiesa sulle denunce per molestie e violenze sessuali sui minori.
I fatti d’Irlanda
Gli scandali per le violenze, intanto, non si placano e investono l’Europa tra il 2009 e il 2010. Particolarmente gravi i casi in paesi come il Belgio e l’Irlanda. Proprio gli scandali nella repubblica d’oltremanica portarono lo stesso Benedetto XVI a pubblicare una lettera in cui si invitava alla collaborazione con le autorità civili per affrontare le denunce e negava la cultura del segreto che fino a quel momento aveva permesso la reiterazione degli abusi contro i minori. L’atto di Ratzinger fu visto come rivoluzionario, rispetto a quanto fatto in precedenza. Molte teste caddero, tra cui alcuni tra i più importanti rappresentanti religiosi della chiesa irlandese.
La situazione italiana
Il fenomeno ha purtroppo interessato il nostro paese, come ci ha raccontato qualche anno fa Tommaso Cerno in una sua inchiesta pubblicata per l’Espresso. «Un crimine declassato a semplice peccato, da assolvere e dimenticare» si legge nell’articolo dell’attuale direttore della testata, che ritorna sui tentativi da parte di certi vescovi di insabbiare il tutto. Un crimine «coperto dagli inni e dalle penitenze, protetto dal segreto della confessione, imposto dopo la messa come un rituale a cui i bambini non sanno opporsi». Tra i casi italiani uno dei più noti è quello di don Inzoli, recentemente ridotto allo stato laicale da Bergoglio dopo una condanna a quattro anni e nove mesi dal Tribunale di Cremona.
Don Inzoli e i “no gender”
Don Inzoli, va ricordato, era nel pubblico ad un convegno organizzato da associazioni quali Obiettivo Chaire e Alleanza Cattolica, con tanto di logo dell’Expo gentilmente concesso dal governatore Roberto Maroni. Il convegno dava credibilità alle terapie riparative e vide, tra i partecipanti, alcuni tra i più strenui appartenenti al movimento “no gender”, gli stessi che hanno come slogan il mantra “giù le mani dai bambini”, esibito nei vari family day per dire no alle unioni civili e alle adozioni. Sembra strano, a ben vedere, che chi dice di aver a cuore il benessere dei bambini poi taccia quando le loro innocenze vengono stravolte da stupri e molestie.
Il silenzio degli omofobi
Al momento in cui si scrive i più ferventi oppositori ai diritti di gay, lesbiche e trans si stanno occupando di tutt’altro, nelle loro bacheche sui social. E invece sarebbe opportuno sentire, da parte dei soliti noti, parole forti e inequivocabili contro certi abusi. E magari una riflessione – quanto più onesta, serena e pacata – sul fatto che il pericolo per bimbi e bimbe non sta dentro le famiglie omogenitoriali ma in specifici contesti ritenuti, forse troppo a lungo e a torto, luoghi sicuri per il sereno sviluppo dell’infanzia. Una loro parola, insomma, sarebbe opportuna. Sempre che si stabilisca una gerarchia di urgenze: tra le preoccupazioni più importanti dei “no gender” possiamo leggere, infatti, le critiche ad Angela Merkel per aver aperto al matrimonio egualitario, il flop sulle unioni civili (grazie, Repubblica.it) e l’apertura di uno sportello “no gender” nel bresciano. Ubi maior, insomma. Altrove, intanto, le mani sui bambini continuano a metterle.