La personalizzazione della politica non è un fatto nuovo, nel panorama italiano. Vero e proprio vizio della Seconda Repubblica, molti partiti hanno cominciato ad accompagnare al proprio simbolo il nome del leader (pensiamo all’Italia dei valori con Di Pietro, o a Futuro e Libertà collegato a Fini). Tale aspetto ha caratterizzato anche i movimenti più recenti, come il M5S da sempre associato a Beppe Grillo. Questa dinamica, tuttavia, a lungo andare risulta logorante perché polarizza il dibattito pubblico non sulle singole questioni che si vogliono affrontare, ma sull’appoggio o meno al “capo”. E trasforma il dibattito politico in vero e proprio tifo.
All’interno dei partiti più grandi, poi, la questione investe la politica nazionale nel suo complesso. Basti vedere cosa è diventata oggi la destra, dopo il declino di Berlusconi. Una compagine frantumata, in cui convivono realtà disomogenee, dal radicalismo di Meloni e Salvini al fantasma di ciò che resta dello spirito liberale di Forza Italia, tra pitonesse in fuga e tira e molla dei propri candidati alle amministrative (Bertolaso docet). Una macedonia senza identità, appunto, dove è necessario urlare per farsi vedere. E così abbiamo le ruspe della Lega e l’ossessione per il gender in Fratelli d’Italia. Un bel disastro, insomma.
La dinamica del leader che genera identità è grave non solo perché poi sfascia un intero panorama istituzionale, ma anche perché trasforma la politica in leaderismo. È quello che sta succedendo all’interno del Partito democratico, per anni gestito dagli eredi di una tradizione superata dalla storia – ricordiamo D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani e il loro splendido grigiore? – e poi finito in mano all’uomo della provvidenza. Un Renzi che, al di là di meriti o demeriti (a seconda del punto di osservazione), ha più volte gestito il Pd come dominio personale, umiliando le minoranze interne, e la politica come terreno di scontro in cui consumare una lotta tra bene e male.
Pensiamo al referendum sulle trivelle, associato a una vera e propria sfida sulla sua persona. Non si è votato (e infatti in molti non sono andati a votare) sull’argomento in questione, ma si è esercitato un (non) voto sulla fedeltà al personaggio. E chi lo ha fatto, invece, ha votato contro il premier. Il risultato politico è evidente e richiama l’antiberlusconismo che per anni ha nutrito il ventennio precedente, rendendolo vittorioso.
Adesso è il momento delle unioni civili, che nella narrazione parlamentare e nel dibattito pubblico rischiano di diventare l’anticamera di un’altra partita, quella del referendum costituzionale. Nel pensiero prêt à porter del renziano standard, la critica al come questa legge sia arrivata alla Camera diventa in automatico un no imprescindibile ai diritti delle persone Lgbt. Segue il solito manicheismo: la lotta tra le tenebre e la luce e, poiché questa legge l’ha voluta Renzi, se non ti piace appartieni alle forze oscure, sei spirito della notte, uccello del malaugurio: gufo, appunto. E diventi uguale a chi, da Adinolfi ad Alfano, la vera parità non la vuole davvero. Quando forse meriteremmo, tutti e tutte, pensieri più elevati.
A tale proposito: la lotta contro la persona si sta già trasformando in guerra ad ampio spettro. Ncd e altri esponenti della destra non governativa minacciano ritorsioni sul referendum di ottobre. Minaccia ripresa, fuori dal palazzo, dalla piazza del Family day i cui leader hanno dichiarato “Renzi ci ricorderemo” proprio al momento di votare per le riforme istituzionali. Un terreno di scontro che non fa bene né ai diritti delle persone Lgbt (se il leader si indebolisce, si indebolirà il favore dell’opinione pubblica sulla questione), né al dibattito sul futuro del paese.
In altre parole, mi piacerebbe vivere in un paese in cui poter dire quanto segue: 1. non mi piacciono queste unioni civili, ma al momento non possiamo fare altro che prenderci ciò che questo parlamento scellerato è in grado di approvare (le ragioni le ho spiegate altrove); 2. voterò no al referendum di ottobre non perché sono contro il premier, ma perché penso che questa riforma sia pericolosa per la tenuta democratica del paese (e possiamo anche discutere sul perché). Di fronte a tutto questo, sarebbe anche bello non essere associati a Gandolfini, Meloni o Alfano. Perché si possono volere cose diverse senza essere uguali a chi non vuole un paese migliore. Ditelo al premier.