«[…] Sei l’unica me che ho, torna a casa».
La domanda della sete di Chandra Livia Candiani, recentemente pubblicato per Einaudi, è richiesta dispiegata in uno spazio aperto, infinito: un silenzio bianco, tipico della poetessa milanese, un retaggio che proviene da altre sue opere, come Il silenzio è cosa viva (Einaudi, 2018). Uno spazio poetico in cui, contrariamente a quello che si possa pensare, tutto è pulsante di vita, in attesa di essere svelato, raccolto nella sua essenza più profonda.
I versi sono assetati, tutto nell’universo Candiani ha fame d’amore. Un amore semplice, intrecciato ai piccoli dettagli, alla minimalità dell’esistenza, ai suoni che popolano le campagne, le città; un amore per una vita minima che chiede mestamente di essere vista, ascoltata, osservata nella sua linfa intima.
Ma quello di Candiani è un silenzio capace di colpire fino ai sostrati più profondi del sentire: ovunque echeggia il desiderio vivido di essere parte del tutto, ribolle il magma di una poesia stesa quasi rabbiosamente da parte di chi ha compreso, lontana e solitaria, che siamo ancora animali in attesa d’essere liberati.
«[…] Vuoto, grande uragano,
mano discreta che ti tiene
nel palmo segnato da altri
uragani, ventre aperto
alle intemperie di ogni età:
ecco, io esisto,
piccolo animale sotto chiave,
la solitudine è assenza di geografia».
Nella poetica di Candiani si ha sempre a che fare con un non-luogo da cui fare ritorno, si ha la sensazione di vivere un nostos, un sentimento nostalgico verso qualcuno che si è perduto, che ha smarrito una parte del sé nella confusione della vita.
In attesa di un lento tornare dentro la propria anima, La domanda della sete non dà risposte ma, come la sola vera poesia riesce, insinua il dubbio che qualcosa debba ricominciare a vivere in noi, con un fuoco sacro di cui nutrirsi ancora.