Quando ho letto delle polemiche sulla studentessa che ha indossato il tricolore, ho realizzato che il vecchio detto per cui l’abito non fa il monaco sembra non valere più. Nella civiltà dell’immagine e nell’epoca della vetrinizzazione sociale, assistiamo alla creazione di una “nuova ontologia” – per parafrasare McInerney – per cui sei ciò che vesti. E se ciò che indossi fa di te un essere dotato di identità, la valutazione sull’outfit può trasformarsi in automatico giudizio sull’individuo. Morale e moralistico.
Il caso della studentessa di Mirandola
Per chi non lo sapesse ancora: una studentessa di origini senegalesi residente a Mirandola ha indossato un abito tricolore per la visita di Sergio Mattarella, lo scorso 29 maggio a Mirandola. Visita che il Presidente della Repubblica ha fatto in occasione dell’anniversario del terremoto che colpì l’Emilia Romagna cinque anni fa.
Contrariamente a quanto avranno creduto i soliti cultori della forma – i quali, raramente, riescono poi a concentrarsi sulla sostanza – non si trattava di dileggio di un simbolo, né di travestimento con lo scopo di creare scandalo: il vestito è stato creato dagli studenti dell’istituto Galielo Galilei, indirizzo moda. La cosa ha dato fastidio a qualcuno ed è partito un esposto per vilipendio alla bandiera.
La scelta di vestire col tricolore
Cerchiamo di ricostruire dinamiche e ragioni che possono celarsi dietro la scelta di confezionare un abito simile e di farlo indossare a una ragazza di origini straniere. È prevista una visita ufficiale da parte di una delle massime autorità del nostro paese. Una scuola – un istituto tecnico che ha il compito di formare studenti e studentesse nel campo della moda – fa confezionare un vestito, recuperando un simbolo del nostro paese: la bandiera. A quello associa un altro atto simbolico: farlo indossare a una persona che viene da lontano. Perché l’Italia di oggi è anche abitata da persone che vengono qui per studiare e lavorare nel e per il nostro Paese – come nel caso di Mbayeb “Mami” Bousso, la ragazza in questione – e perché compito della scuola è quello di includere, di non lasciare nessuno/a fuori da questo processo di costruzione di un’identità. Anche “nazionale” se vogliamo (e mai “nazionalista”).
Bellezza tipica locale?
E poi c’è “laggente”, e concedetemi la grafia. Tra i commenti che saltano all’occhio sui social network – il pensiero va a Umberto Eco e a quanto disse sull’accesso al web degli imbecilli – c’è quello del signore che non ha niente contro la ragazza, ma non rappresenta “la bellezza tipica di Mirandola”.
Affermazione, questa, che pone di fronte ad una considerazione: l’elezione di Danny Mendez a Miss Italia non è stata ancora digerita da molti, a ventuno anni di distanza. Quando dici l’avanguardia… E a un dubbio: quali sono i criteri che stabiliscono i parametri di una genuina estetica mirandolese? E in cosa le abitanti della cittadina emiliana si distinguono da quelle di Modena, Vignola e altri luoghi vicini? Si spera che per risolvere la questione sia stata convocata una task force di esperti.
Il parallelo con le polemiche sui pride
Sarebbe interessante vedere la faccia del giudice che si troverà a dover valutare l’esposto del solerte signore pistoiese ferito nel suo sentimento patriottico. E sarebbe interessante capire quanto questo afflato verso la nazione sia messo in gioco in altri ambiti, dall’obbedienza ai doveri fiscali al rispetto delle norme costituzionali (tra cui l’osservanza del principio di uguaglianza). Per quello che mi riguarda, non posso non riscontrare un poderoso parallelo con le solite querelle che annualmente vengono tirate in mezzo quando si tratta di scendere in piazza per i pride. Il corto circuito è lo stesso. I protagonisti anche: c’è un/a rappresentante di una minoranza, un “travestimento” e un’attribuzione di moralità rispetto al chi e al cosa muove una determinata scelta.
Violare la “bandiera” dell’accettabilità sociale
A Mami Bousso non si perdona il colore della pelle associato a un simbolo di identità nazionale. Una nera può forse essere italiana? La risposta dovrebbe essere ovvia. Come negli Usa o in Brasile non è questo a determinare l’appartenenza, ma l’adesione a un sistema di valori. Risposta ovvia, se il nostro non fosse un paese in buona parte razzista.
Parallelamente, essere persone Lgbt non deve violare una norma di accettabilità condivisa: non si deve mettere in discussione, cioè, la “bandiera” dell’accettabilità sociale. Quest’ultima, per la gay community, deve coincidere con il concetto di “sobrietà” imposto dalla maggioranza e introiettato, purtroppo, da diverse persone interne alla comunità.
Peccato che la maggioranza in questione non abbia niente da insegnare a nessuno. E che è la stessa che manda in tribunale una ragazza che ha la colpa di essere nera e di vestire come non dovrebbe.