Un doppio grido di dolore si leva dal web e dal mondo dei social. Da una parte, infatti, abbiamo quelli che “ma il pride deve essere sobrio“. E dall’altra quanti e quante tra militanti e sodali non sanno più come spiegare che questa storia della sobrietà non solo è un boomerang, ma anche – e diciamolo una volta per tutte – un’enorme cazzata. Riporto di seguito alcuni commenti, tra i più significativi.
«Ho letto il primo post della stagione sull’oscenità dei pride e sul fatto che siano controproducenti e che dovremmo mostrarci educati per farci accettare» scrive Daniela Tomasino, di Arcigay Palermo, sul suo profilo Facebook. «Ora è ufficialmente stagione di pride… mi commuove tipo ritorno delle rondini a primavera». Insieme a lei, possiamo ricordare la voce di altri attivisti. A cominciare da Enrico Gullo, che si domanda: «È già partito il polemicone primaverile sui Pride in giacca e cravatta perché se no Zia Pina non ci viene? Faccio in tempo a fotocopiarmi le chiappe e volantinarle in giro per protesta?»
E non sono gli unici. Guido Noto La Diega ci ricorda che «All’inizio del Quattrocento, il palermitano Antonio Beccadelli scriveva “Qui sarà consentito dire e fare sconcezze né ripulsa t’arrossirà la faccia. Qui, come puoi e da tanto vai sognando, mio libro, scoperai quanto vuoi e sarai scopato!” (Hermaphroditus, II, XXXVII, 29-32). E qui stiamo ancora a parlare di Pride sobri». E anche in Sardegna, Andrea Samuele Tafuni – attivista di Arc Cagliari – si sfoga: «Abbiamo cominciato il periodo “ma perchè i pride non li fate giacca e cravatta? otterreste molto di più”. Avete ragione, io quest’anno ci vado in Tailleur e voi mute».
Siamo in piena “emergenza decoro”, insomma. Pazienza se poi – e riporto la mia, di esperienza – sui loro profili, quanti e quante evocano un maggior equilibrio sono poi gli stessi che ci deliziano con selfie dove i vestiti sono optional, per dirci che l’inverno sta arrivando e con esso la stagione delle piogge. Bocca a culo di gallina in bella mostra, vuoi mettere? E si badi, non voglio criminalizzare nudità e varie manifestazioni di languore, ma mi risulta sempre difficile capire le ragioni per cui il pettorale depilato va bene su Facebook, ma poi diventa “eccesso” in un manifestazione pubblica.
A tal proposito, ho fatto una piccola ricerca di natura squisitamente linguistica sul concetto di “sobrietà”. Riporto perciò la definizione da dizionario, riprendendo il Sabatini Coletti in cui si legge: «Moderazione, misura, nell’assecondare i propri istinti naturali». Se partiamo dal presupposto che i pride sono una manifestazione in cui si rivendica la propria identità sessuale (che è fatta anche di istinti) e si fa passare il messaggio che essa vada assecondata, attraverso l’accettazione, direi che ci siamo pienamente.
Certo, mi si può contestare che la parola “moderazione” evoca qualcosa di castrante. Tuttavia se consideriamo che questo termine, se guardiamo al suo etimo, significa anche “dirigere”, “dare modo”, “costruire sistema”, possiamo ammettere serenamente che nel processo di costruzione di un messaggio politico – la libertà sessuale e l’orgoglio di essere ciò che siamo – e di un’estetica, se vogliamo anche baraccona (ma non solo), il pride è il luogo in cui si dà forma (ovvero “si modera”) a quel messaggio e a quella rappresentazione.
E se guardiamo l’etimologia del termine incriminato, “sobrietà”, possiamo scoprire due accezioni. Una più classica e un’altra, invece, più “rivoluzionaria” che richiama non al contenimento, ma alla salubrità psichica: deriverebbe, infatti, dal greco sôphrôn che significa appunto “sano di mente”. E non serve scomodare la psicologia per capire che quando si è veramente se stessi/e, si sta bene. Si è, in altri termini, persone integre. E cos’è il pride se non la manifestazione in cui si dice, attraverso le grammatiche della gioia, di essere interamente ciò che si è?
Anche sulla Treccani possiamo ritrovare un secondo livello di lettura, quello che si chiama senso figurato: è sobrio ciò «che rifugge da ogni artificio e ornamento» oppure «che è privo di ridondanze e superfluità». Adesso, a ben guardare, eterosessismo e omofobia ci vorrebbero “artificiali” – ricordiamo i discorsi sull’essere opposti al concetto di “natura” – e travestiti con l’ornamento della norma, per dirla con Mieli. Ovvero “travestiti” di ciò che non siamo, come vorrebbe un certo pensiero patriarcale. E non è forse superfluo, cioè eccessivo, dimostrare di essere altro da sé?
Come dite? Siete ancora poco convinti? Mettiamola così: la lingua subisce alcune modificazioni – tecnicamente si parla di slittamento e di estensione semantica – date dal contesto culturale di riferimento. Se tale contesto è castrante, le parole saranno scrigni di sentimenti illiberali e di pratiche oppressive. Poi, va da sé, si può anche propendere per una lettura più tradizionale. Ma tradizione non è sempre sinonimo di autenticità. E ognuno/a di noi è realmente “autentico” quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stesso. Parola di Agrado. Il pride, insomma, ci suggerisce di essere persone libere. La lingua, invece, di non assolutizzare le parole. A voi, poi, la scelta.
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