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Il primo studio italiano sui figli di padri gay nati con gestazione per altri

Un anno di lavoro di ricerca, interviste ed elaborazione dei dati. Quaranta famiglie con coppie di padri gay e altrettante con coppie di madri lesbiche. Un totale di 31 bambini nati grazie alla gestazione per altri intervistati direttamente. Sono solo alcuni dei numeri di uno studio in quattro parti condotto da Nicola Carone, dottorando in Psicologia sociale, dello sviluppo e ricerca educativa e supervisionato dai professori Vittorio Lingiardi e Roberto Baiocco, rispettivamente docenti dei dipartimenti di Psicologia dinamica e clinica e di Psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione dell’Università La Sapienza di Roma. Di questo studio, oggi la rivista accademica edita dall’Università di Oxford ha pubblicato la prima parte. “Si tratta del primo studio sulle coppie gay e i figli nati da gestazione per altri in Italia” spiega a Gaypost.it Nicola Carone.

Lo studio pubblicato oggi

“Abbiamo indagato quattro aspetti che riguardano le coppie di persone dello stesso sesso con figli – continua Carone -: quale sia il livello di benessere socioemotivo dei bambini nati con GPA, cioè se si riscontrano problemi comportamentali, emotivi o con i loro pari; quale sia la qualità dell’attaccamento tra questi bambini e i loro papà; che rapporto ci sia con la donna che ha portato avanti la gravidanza e con quella che ha donato l’ovulo; quali siano i comportamenti di genere dei bambini cresciuti con genitori dello stesso sesso”.
La parte dello studio appena pubblicata è quella che riguarda il rapporto tra i bambini nati con gestazione per altri e le donne che hanno permesso la loro nascita e come i bambini apprendono il processo della maternità surrogata.

Per studiare questi aspetti, sono stati intervistati anche i bambini stessi, ma solo quelli compresi tra i 6 e i 12 anni di età. Nelle famiglie con bambini più piccoli, i ricercatori si sono limitati a rivolgere domande solo ai padri.
“Abbiamo intervistato direttamente 31 bambini intervistati in 24 delle 40 famiglie del campione – chiarisce Carone -. Questo significa che ci sono bambini figli degli stessi genitori. Dal punto di vista della ricerca, potrebbe essere un limite perché due fratelli possono avere un vissuto molto simile. In realtà, è successo che alcuni fratelli abbiano risposto alle stesse domande in maniera del tutto differente”.

Rapporti con portatrici e donatrici

Delle 40 coppie di padri gay, il 15 per cento dichiara di non avere relazioni con la donna che ha portato avanti la gravidanza, mentre l’85 per cento ha rapporti. Di questi, il 57,1 per cento ha un rapporto definito “positivo e armonioso”. “Significa – spiega Carone – che hanno contatti regolari via internet o telefono e che ci sono delle visite occasionali, sia della gestante e la sua famiglia in Italia, che dei papà gay con i figli nel paese della donna. L’incontro è solitamente tra famiglie, dunque”. Il 42,9% ha, invece, una “relazione distante”, ovvero con rapporti più sporadici e la portatrice è meno presente nella vita dei bambini. “Un padre ci ha parlato di ‘sana distanza’ perché non ritiene che la portatrice debba essere più coinvolta nella vita del bambino, ma che i due debbano avere una buona relazione – spiega il ricercatore -. Poi ha specificato che se il figlio vorrà conoscerla meglio, potrà farlo”.
Certo, la geografia non aiuta.

Le famiglie con padri gay intervistate sono andate in Canada, Usa, Colombia, India e Ucraina (in questi due paesi, prima che la gpa fosse vietata alle coppie gay o, addirittura, agli stranieri) e anche le diverse forme di regolamentazione influiscono nei rapporti tra portatrice e/o donatrice e famiglia con bambini. Ad esempio il sistema adottato in Ucraina non li facilita, mentre quelli canadesi e statunitensi sì, ma in alcuni casi sono le donne stesse a non volere instaurare relazioni con le coppie e i bambini, dopo il parto.
Diverso il discorso se si parla delle donatrici di ovuli con cui è meno frequente che si mantengano rapporti.
Il 69 per cento delle famiglie, infatti, non ha rapporti con le donne che hanno donato gli ovuli (si tratta di 25 famiglie, 11 delle quali hanno ricevuto l’ovulo da donatrici anonime). Il 31 per cento, invece, ha relazioni con la donatrice. Di questi, il 33 per cento ha una relazione “armoniosa e positiva “, mentre il 66,7 per cento solo sporadica.

I bambini come e quando sanno come sono nati?

Molti di noi non hanno saputo grazie a quale processo biologico sono nati se non dalla scuola durante le lezioni di biologia. Lo stesso non si può dire per i bambini nati da Gpa. “E questo vale sia per i figli di coppie gay che per quelli di coppie etero – spiega Carone -: nel primo caso perché i bambini si confrontano con compagni di scuola o anche cugini che hanno una mamma, nel secondo perché la madre non ha portato avanti la gravidanza e quindi deve spiegare com’è nato il figlio”.
Ma come e quando i padri gay spiegano ai loro figli come sono venuti al mondo?
L’85 per cento delle coppie di padri ha iniziato a raccontarlo. Di queste, il 94 per cento l’ha fatto prima dei 4 anni di età del figlio o della figlia, mentre il restante 6 per cento ha iniziato tra i 4 e i 6 anni.

Le modalità cambiano molto, ma ci sono degli elementi ricorrenti. “Chiaramente dipende dall’età del bambino – continua Carone – e dalla sua capacità di comprendere determinati passaggi. Ma ci sono degli elementi ricorrenti. La maggior parte dei padri ha spiegato di aver raccontato che i papà avevano bisogno di aiuto per avere un bambino e quindi serviva il pancino di una donna”. Il racconto, specialmente con i bambini più piccoli, si concentra molto sulla portatrice e meno sulla donna che ha donato l’ovulo. Solo il 40 per cento ha spiegato il ruolo della donatrice, mentre il 12 per cento afferma che lo farà se il figlio farà domande specifiche.

Chi è il papà biologico?

Più raro il racconto di chi dei due papà ha donato il seme per la fecondazione dell’ovulo. “È un aspetto più complicato da spiegare – dice il ricercatore – e spesso il padre biologico teme di sminuire il ruolo dell’altro padre puntando sull’aspetto genetico”. Succede, quindi, che solo il 10 per cento ha affrontato questo aspetto, mentre il 22,5 per cento pensa di farlo in futuro e il 35 per cento di non farlo mai. Infine, il 32,5 per cento lo farà solo se il bambino lo chiederà espressamente.
Per facilitare la spiegazione, i papà scelgono diversi supporti: libri per bambini che affrontano il tema (“Molto usato è ‘Piccolo uovo’, ad esempio” spiega Carone); i video realizzati durante la gestazione e i viaggi nel paese della portatrice; foto della portatrice stessa, spesso ritratta con i due papà.

E i bambini come reagiscono?

Per comprendere questo aspetto, sono stati intervistati i bambini e le bambine tra i 6 e i 12 anni. Nessuno di loro si sente confuso e solo il 3,2 per cento non sa come si sente. Il 61,3 per cento, invece, dice di essere limitatamente interessato al fatto di essere nato tramite Gpa e il 35 per cento ha sentimenti positivi. Di questi, il 73 per cento si definisce “un bambino speciale”, mentre il 27 per cento è curioso.

“Sono un bambino speciale”

“Un bambino ci ha detto, testualmente – racconta Carone -: “Sono un bambino speciale. Ho due papà e vengo dalla pancia di (nome della portatrice) che non è mia madre. Ognuno viene dalla pancia di sua madre, ma io no” E questo non venire dalla pancia della propria madre non è vissuto con un sentimento negativo”.

I bambini capiscono cos’è la Gpa?

La risposta è sì, ma a livelli diversi in base all’età. Il 54,8 per cento ha una comprensione chiara e conosce esattamente tutti gli aspetti: il ruolo della portatrice, quello della donatrice e quello del padre biologico. Il 45,2 per cento ha capito che c’è stata una donna che l’ha portato nella pancia. “Sono i bambini più piccoli” chiarisce Carone.

Un dottore, tre stanze “e poi sono arrivato io”

“In questo senso è esemplificativa la risposta che ci ha dato un bambino di 12 anni – riferisce il ricercatore -. Ci ha detto: “Papà e babbo sono andati da un dottore che aveva tre stanze: in una papà ha dato il semino, nell’altra il dottore ha preso l’ovetto e lo ha messo in una bustina di plastica. Poi li ha uniti, è andato nella terza stanza e li ha essi nella pancia di (nome della portatrice). Hanno aspettato 9 mesi e poi sono arrivato io. I miei papà sono stati fortunati perché l’ovetto e il semino sono andati subito bene insieme”. Un racconto che palesa una comprensione chiara, anche della possibilità che non tutto funzioni al primo tentativo”.

Che idea hanno delle ragioni delle donne che li hanno fatti nascere?

I bambini intervistati hanno anche un’idea precisa del perché alcune donne hanno contribuito alla loro nascita, che varia a seconda che si parli della portatrice o della donatrice. Il 61,3 per cento dei bambini pensa che la donna che ha affrontato la gravidanza l’ha fatto perché voleva aiutare a creare una famiglia (il 68 per cento lo pensa della donatrice dell’ovulo); il 22,6 per cento pensa che la donna fosse animata dal desiderio di avere una famiglia allargata (solo il 4 per cento lo pensa della donatrice); il 6,5 per cento pensa che avesse bisogno di soldi (la percentuale passa al 16 per cento per le donatrici); il 9,6 per cento non lo sa, come non lo sa il 12 per cento riguardo alla donatrice.

Che sentimenti nutrono nei confronti della portatrice?

Dei 31 bambini intervistati, il 71 per cento dice di essere grato alla donna che l’ha partorito, mentre il 29 per cento è limitatamente interessato a conoscerla e non pensano a lei. Nessuno prova rabbia o curiosità. Dei 25 bambini che sanno dell’esistenza di una donatrice di ovuli, il 40 per cento esprime gratitudine, mentre il 44 per cento manifesta un interesse limitato, l’8 per cento è curioso e l’8 per cento è arrabbiato. “La rabbia – spiega Carone – è spiegata con l’assenza della donna. Una bambina ci ha detto che avrebbe voluto che fosse rimasta con i suoi papà fino a quando lei è nata”.

I nomi

Il tipo di relazione che questi bambini hanno con le donne che hanno condotto la gravidanza o donato l’ovulo è rappresentato anche dai termini utilizzati per identificarle. Per il 54,8 per cento di loro, la portatrice è “zia” o un’amica di famiglia, mentre solo per il 12 per cento lo è anche la donatrice. La portatrice è una “signora gentile” per il 19,4 per cento dei bambini (per il 48 per cento lo è la donatrice), mentre il 9,7 per cento la chiama per nome (il 12 per cento lo fa con la donatrice), un altro 9,7 la definisce “mamma-pancia” (mentre la donatrice è “mamma-uovo per il 24 per cento) e il 6,4 per cento la chiama mamma. “Mamma” è anche la parola che usa una bambina (il 4 per cento del campione) per definire la donatrice. “Lei ci ha raccontato che da un paio di mesi, a mensa con le amiche, le piace immaginare che potrebbe avere una madre da qualche parte e dei fratelli sparsi per il mondo. Perché lei forse ha donato altri ovuli da cui sono nati altri bambini”.
Nessuno, però, secondo i ricercatori, manifesta desiderio di avere una relazione materna con queste donne.

Uno studio da rinnovare nel tempo

“L’intenzione è quella di seguire le famiglie nel tempo – spiega Carone – per vedere nei prossimi anni, man mano che i bambini crescono, se i vissuti cambiano e se i livelli di benessere o malessere riscontrati variano o no”. Uno studio che è solo all’inizio, dunque, e che ha il pregio di fotografare una situazione finora sconosciuta e lasciata a interpretazioni, in un senso o nell’altro, non supportate da dati e rilevazioni. “Contrariamente a quanto spesso avviene con questo genere di ricerche – conclude Carone -, basate sostanzialmente sulla somministrazione di questionari, noi siamo andati a visitare le famiglie nelle loro case, in un ambiente in cui i bambini si sentivano a loro agio e in cui potevamo osservare noi stessi le interazioni tra genitori e figli (dati che fanno parte di sezioni non ancora pubblicate dello studio, ndr) senza che i fossero i genitori stessi ad autorappresentarsi, col rischio che si sottolineassero maggiormente gli aspetti positivi e si omettessero quelli negativi”.

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