In questi giorni ho condiviso due articoli di due donne (femministe) che spiegano perché Renzi non è femminista. Secondo le giornaliste Giulia Blasi (il suo pezzo è stato pubblicato su Esquire) e Jennifer Guerra (che ha proposto una riflessione su The Vision), ha solo intercettato la “moda” politica del momento (si notino le virgolette, per favore) e farne moneta di scambio per facili palati elettorali. Per poi saper raccontare se stesso “in un certo modo” e al momento giusto.
Certo, il tema della parità di genere, lo stop alle violenze e ai femminicidi, l’equilibrio nella rappresentanza, ecc, sono questioni importanti. Il discorso è che per affrontare al meglio tutto ciò devi intervenire nel cuore della struttura, non nelle sue ramificazioni. La “mala pianta” di turno, infatti – il patriarcato, nello specifico – puoi potarla di tutto punto. Ma se lasci le radici, quei rami poi ricrescono. Renzi non è femminista, dicono le due autrici su menzionate semplicemente perché non mette in discussione il potere di cui si, per altro, è auto-investito. Anzi, usa quel potere stesso – ammantato di femminismo – per mantenere salde le sue posizioni di privilegio (a cominciare dall’essere leader, e non solo).
Giulia Blasi, nel suo pezzo, fa quindi un accenno alle unioni civili, lasciando intendere che una prova del mancato femminismo di Renzi possiamo trovarla proprio nella genesi e nel decorso di quella legge. Blasi, a tal proposito, scrive: «Dovrebbero essere le persone interessate a parlare». Colgo perciò la palla al balzo. Io, parimenti, credo che al netto di ciò il “caso unioni civili” sia speculare al processo messo in atto dal leader di Italia Viva sul suo presunto femminismo: semplicemente, nel 2015 l’ex premier aveva capito che era di “moda” prendere le parti dei gay (uso appositamente il maschile generico e, ancora, le virgolette) e ha, quindi, legiferato in merito. Portava acqua al suo mulino: un giorno si sarebbe potuto dire di lui che era l’unico che era riuscito laddove molti avevano fallito o non avevano neppure tentato.
Eppure, proprio come per la professione di femminismo che poggia su un vuoto ideologico totale, l’ex “legge Cirinnà” (di cui si è appropriato, nel rush finale) non ha intaccato di una virgola l’impianto eterosessista della nostra società: semmai, lo ha semplicemente confermato. Il matrimonio e la famiglia, da una parte. Ciò che matrimonio e che famiglia non è, dall’altra: “over the rainbow”, per l’esattezza. Il procedimento è stato questo. Una conferma dello status quo, piuttosto che un rimescolamento delle carte. Certo, qualche problema concreto è stato risolto, è innegabile. Ma per quanto tu possa potare la “mala pianta” – dell’omofobia, a questo giro – se poi non intacchi le radici…
Renzi, ricordiamolo ancora una volta, non è femminista perché non mette in discussione il patriarcato e da bravo maschio dominante decide tutto, nel suo partito: ruoli, presenze, “quote rosa”. Allo stesso modo, Renzi non è mai stato Lgbt-friendly perché non ha mai messo disatteso l’impianto omofobo su cui poggia la nostra società. Da bravo cattolico prestato alla politica, ha blindato il matrimonio, rendendolo l’unico luogo giuridico in cui è lecito parlare di “famiglia” – e non di formazioni sociali specifiche – e di “genitorialità” (si ricordi la libertà di coscienza data ai cattolici, sulle stepchild adoption). Non stupisce, tra l’altro, che abbia accolto personaggi non proprio benevoli con le istanze Lgbt+, nel suo nuovo partito.
Insomma, è uno schema vecchio che però funziona. Mediaticamente, almeno. Alla fine può sempre dire di essere l’unico che le cose le fa, mentre tutti gli altri parlano. Peccato che non faccia le cose che dice di voler fare. Ma questo è un altro discorso. Concludo facendo notare una differenza non di poco conto tra le militanze relative ai due fatti in questione. Oggi le femministe si ribellano apertamente a questa narrazione del “leader femminista”. Poi, per carità, magari domani torna al governo, il “Matteo giusto”, e qualche legge contro il gender gap te le fa pure. Ma, appunto, se non cambi la struttura sociale, cambia poco.
Ieri molti e molte all’interno della comunità Lgbt+ e del movimento stesso hanno salutato la legge delle unioni civili non per quello che era, ma per ciò che veniva raccontato: ovvero, un fulgido esempio di uguaglianza. Quando invece – lo so, sono monotono, ma repetita iuvant (forse) – era solo una linea di demarcazione tra “normalità” e “straordinarietà”. Tra previsto e imprevisto. Tra ciò che doveva essere tutelato (il matrimonio “etero” con tutto il pacchetto annesso) e ciò che poteva essere tollerato (la legge ad hoc per gay e lesbiche, amputata di un bel po’ di cose che l’avrebbero fatta virare verso un’uguaglianza sostanziale).
La differenza tra le femministe di oggi e certi “gay gaudenti” (e non poche lesbiche) di ieri, è che le prime hanno capito che la lotta per ciò in cui si crede non può e non deve fare sconti a nessuno. Noi, invece, abbiamo supportato – come comunità e come movimento, al netto di singole realtà e di singoli individui – chi ha operato una mistificazione a discapito della nostra piena dignità. Più in breve, la differenza che vedo è la stessa tra un “ma come ti permetti” e un “osanna, mio Signore”. Da lì, per altro, non ci siamo più mossi. Questa è storia. Una storia molto triste.
La famiglie sono tutte diverse. I diritti, invece, devono essere tutti uguali. E' questo il…
La notizia è di pochi minuti fa: Torino ospiterà l'Europride a giugno del 2027. Per…
Una bufala che sta circolando, durante queste Olimpiadi, è quella del “not a dude”. Stanno…
Ammetto che ieri guardavo un po’ distrattamente la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi a Parigi. Sono…
Il comune di Catania nega la carriera alias alle persone transgender e non binarie della…
Ce lo ricordiamo tutti, Ignazio Marino, allora sindaco di Roma, che trascrive pubblicamente 16 matrimoni…