Era una notizia di qualche giorno fa: sia la Repubblica, sia La Stampa hanno partecipato ai pride di due tra le maggiori città italiane: Roma e Torino. Un segno sicuramente positivo, abbiamo detto allora, che però andava supportato da atti concreti. E se gli atti concreti sono articoli come quelli di Marina Terragni, pubblicati sul cartaceo e nella versione per abbonati, ci si colloca decisamente all’opposto del concetto di “alleanza”. E si sconfina, tristemente aggiungo, nel sospetto di rainbow washing.
Per rainbow washing – nome che deriva da quello di pink washing – si intende quell’atto per cui si sposa una causa, quella Lgbt+ per la precisione, utilizzandone le insegne e i simboli. L’arcobaleno, nel caso specifico. Lo scopo è quello di apparire “friendly” e quindi creare consenso intorno al proprio brand, conquistando così una fetta di acquirenti. Tuttavia, tale supporto è per lo più esteriore in quanto gli sforzi successivi a favore della causa risultano o insufficienti o assenti. Spesso tale vicinanza viene utilizzata per nascondere aspetti problematici in altri settori, come ad esempio i diritti della classe lavoratrice, la scarsa tutela del lavoro femminile, ecc.
Perché dunque l’adesione al pride sembra una misura più estetica che reale? Per almeno due buoni motivi. Innanzi tutto la lettera di Pierluigi Diaco di qualche settimana fa, che si scagliava apertamente contro l’adesione di Repubblica al pride. Con tutto il castello di interiorizzazione negativa che le parole del giornalista hanno portato con sé. Riporto alcuni passaggi particolarmente critici: «Credo che il gay “militante”» scrive Diaco «oggi abbia perso gran parte della sua utilità: se l’esibizionismo della sessualità è stata una grande occasione che ha segnato un pezzo fondamentale della storia del movimento omosessuale, non c’è dubbio alcuno sul fatto che oggi i gay hanno un nuovo diritto da conquistare: il diritto di vivere liberi e sereni, sottraendosi al “dovere” di dichiararsi in pubblico e in televisione. L’ho scritto e detto più volte: l’orientamento sessuale non è una patente da esibire, ma una caratteristica privata della personalità». Un attacco alla visibilità, insomma.
La tempistica di quella lettera aperta è già di per sé problematica. Pubblicare un contributo che va contro la tua adesione nel momento stesso in cui dichiari di sposare un’istanza, dà forse forza alla tua scelta? O la rende forse incerta e poco robusta? Secondo poi: la libertà di opinione e il libero pensiero – che vanno sempre garantiti – hanno quindi cittadinanza in un contesto e in uno spazio che ha appena sposato una causa contro cui quella “libertà” si scaglia? E qui entra in gioco l’articolo pubblicato oggi a firma di Marina Terragni.
Non entro nel merito dell’articolo in sé, che per altro riproduce la solita argomentazione considerata trans-escludente dal mondo della militanza transgender (e non solo). Il discorso è un altro: se aderisci al pride, perché dici di essere dalla parte dei diritti, non rilanci poi contenuti né dai spazio a personaggi invisi alla comunità che dici di supportare. Soprattutto se quel personaggio ha agito militantemente contro gli interessi della comunità in questione. E Marina Terragni, insieme ad altre attiviste che si definiscono “femministe”, ma che sono invise esse stesse al femminismo italiano, è stata tra le più solerti oppositrici del ddl Zan. A tal punto da essere stata ospite sul palco di Giorgia Meloni, al cosiddetto “Natale dei conservatori”. Quella stessa Meloni che pochi giorni fa ha tuonato contro la comunità Lgbt+ su un palco di estrema destra, in Spagna. È questo il tipo di supporto che Repubblica vuol dare alla causa arcobaleno? Dando spazio e visibilità a chi tuona contro di noi?
Per capire quanto questa scelta sia stata nel migliore dei casi scellerata, basterà andare a leggere alcune bacheche di donne – transgender e cisgender – che si spendono sia per la causa femminista, sia per la comunità transgender. Monica Romano, consigliera del Pd di Milano, chiama il giornale alle sue responsabilità: «Manifestare ai Pride e dichiararsi dalla parte dei diritti significa anche dare immediata possibilità di replica sul vostro giornale allə esponenti della comunità transgender italiana. Attendiamo con fiducia di poter dire la nostra con un articolo […] che preveda uno spazio analogo a quello riservato a Marina Terragni». Per l’attivista «la tesi sostenuta nell’articolo è che l’avanzamento dei diritti delle persone transgender danneggerebbe le donne e i loro diritti. Una tesi che non solo non condivido, ma che rigetto con indignazione. Noi vogliamo – anzi pretendiamo – il nostro turno di parola e la possibilità di difenderci!»
E un’altra attivista transgender, Cristina Leo, sempre sui social rilancia: «E mentre su la Repubblica viene dato spazio, senza alcun tipo di contraddittorio, ad una donna bianca cisgender benestante elitaria di dire la sua sulle persone trans, senza che lo stesso spazio venga dato a delle donne trans, vorrei dire solo una cosa. Visto che secondo la narrazione transmisogina,(perché è soprattutto contro le donne trans), è quasi certo che noi donne transgender siamo delle stupratrici, e che non vediamo l’ora di essere incarcerate nei reparti femminili per farlo. Ribadendo, che in Italia, le donne trans detenute sono recluse all’interno di carceri maschili, in dei bracci specifici, tipo il G8 a Rebibbia. Vorrei sottolineare che le elucubrazioni mentali della signora innominata sono tendenziose e strumentali».
Per concludere con Eugenia Nicolosi, nostra firma, che lancia un attacco durissimo sul suo profilo Facebook: «…Posso – e voglio, e devo – mettere nero su bianco» dice la giornalista, rispetto a Terragni, che «non parla a nome delle femministe. Non parla a nome delle donne italiane di movimento né per conto della comunità lgbt. Parla per se stessa e per un piccolo ma feroce serraglio di transescludenti che stanno combattendo contro il ddl Zan e che sono rimaste indietro di secoli rispetto alle elaborazioni politiche e alle modalità di lotta intersezionali».
Insomma, se Repubblica voleva far arrabbiare la comunità Lgbt+ e allies, a partire dalle sue voci più rappresentative, ci è riuscita pienamente. E se non vuole suffragare il sospetto che la sua adesione al pride sia una misura estetica e nulla più, dovrà dare ampia visibilità alla voce delle persone e delle attiviste transgender. Vediamo cosa farà per ricucire questo strappo.
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