Giulia (nome di fantasia) è una studentessa. Da grande vuole fare l’assistente sociale. Tre anni e mezzo fa ha iniziato il suo percorso di transizione per adeguare il suo corpo alla persona che sente di essere. Per diventare Giulia a tutti gli effetti, insomma. All’università ha il doppio libretto. Cioè ha anche quello con il nome scelto. Così, quando, i professori la chiamano per gli esami, non è costretta a rivelare a tutti la sua transizione. Cosa che, però, deve fare ogni volta che le viene chiesto un documento di identità, in qualsiasi altra circostanza. Per questo e per essere riconosciuta come Giulia anche dallo Stato, due anni fa ha fatto richiesta del cambio anagrafico al tribunale della sua città.
La sospensione del giudice
Un percorso lungo e doloroso, fatto insieme a psichiatri e psicologi nominati dal giudice perché verificassero che effettivamente Giulia vuole cambiare genere, anche senza dover ricorrere all’intervento chirurgico previsto dalla legge. Dalla loro, Giulia e il suo legale hanno ben due sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale secondo cui, per permettere il cambio anagrafico del genere, non è necessario sottoporsi alla mutilazione dei genitali. Sentenze, però, che il giudice che è chiamato a decidere sul caso della ragazza, non condivide. Per questo ha sospeso il giudizio e rimandato la questione, nuovamente, alla Corte Costituzionale auspicando, tra le righe, che la Corte torni sui suoi passi decidendo che sì, l’intervento è obbligatorio.
Tra disforia di genere e “teoria del gender”
Ma quello che lascia perplessi sono le motivazioni addotte dal giudice che arriva a scrivere che “la “disforia di genere”, che si rifà alla teoria del “gender”, secondo la quale non esiste una diversità sessuale biologica “ma soltanto soggettiva e culturale”. Cosa ci fa la “teoria del gender” nelle motivazioni di un dispositivo di un tribunale? Citata, per altro, a sproposito, dato che la disforia di genere non ha niente a che fare con la cosiddetta “teoria gender”, ma è codificata dal DSM. È bastata una banale ricerca su Google per scoprire che quella che il giudice usa come fonte giuridica altro non è che il sito “sì alla famiglia“. All’indomani della sentenza, il sito in questione, (una delle tante voci del fronte “no gender”) pubblicò un commento scritto dal’avvocato Stefano Nitoglia, componente del Consiglio di segreteria del Centro studi Rosario Livatino (anch’esso riconducibile alla stessa area politica).
“Chi pensa ai bambini?”
Da quel commento, il giudice di Avezzano attinge a piene mani citandone paragrafi interi. Cosa, per altro, vietata dall’art. 118 comma 3 delle Disposizioni di Attuazione del Codice di Procedura Civile secondo cui i giudici dei tribunali possono solo citare sentenze e non pareri o fonti giuridiche. Ma c’è di più. Secondo il giudice, l’intervento chirurgico è indispensabile per consentire il cambio di genere di una persona perché ci sarebbero ambiti in cui “è certamente rilevante stabilire con sicurezza il «genere» della persona perché nessuno, men che meno se minore d’età, possa in qualche misura essere disorientato sull’identità del genere del «mutato di sesso»”. E in questi ambiti bisognerebbe tenere conto del contesto sociale in cui il tutelato opera”.
Un principio fallace
In sostanza, una trans (nel caso in specie) che va in spiaggia in bikini rischia di creare imbarazzo se non turbamenti negli altri bagnanti, se dal suo costume si intuisse che ha un pene. Chissà se lo stesso vale per le persone che transitano verso il genere femminile e se in quel caso i bagnanti misurerebbero il rigonfiamento dello slip, viene da chiedersi. Insomma, è come se si chiedesse alle persone trans di operarsi a seconda di dove vogliono andare. Vuoi andare in palestra ed usare gli spogliatoi comuni? Allora devi operarti perché gli altri utenti potrebbero turbarsi. Se, invece, intendi fare vita privata o andare in giro sempre con adeguata copertura, allora (forse!) se ne può discutere. Un principio fallace, oltre che sul piano del buon senso, anche su quello giuridico perché non tiene conto della diritto alla pari dignità dell’individuo, ma numericamente di maggioranze e minoranze.
Un percorso lungo e tortuoso
Ma al di là dell’aspetto giuridico è della vita di una persona, che stiamo parlando. Di Giulia, per l’esattezza, il cui aspetto è già femminile, ma che continua ad avere i documenti al maschile. Giulia, che aspetta da due anni questa sentenza e ora la vede allontanarsi di nuovo. Perché, secondo diversi giuristi, ci sono buone possibilità che la Corte dichiari inammissibile il quesito del giudice di Avezzano rimandandolo indietro. A quel punto, data la posizione del giudice, non si può escludere che non dia l’autorizzazione al cambio di genere anagrafico. Questo significherebbe ricorsi. E mesi, tanti mesi, d’attesa che si aggiungono agli anni già trascorsi e ai 4 mesi trascorsi da quando il dispositivo è stato mandato alla Corte.
La vita delle persone non va nel congelatore
“Quattro mesi d’inferno” dice Giulia a Gaypost.it: “Il punto è che noi non possiamo congelare la nostra vita – continua –. Non posso andare in criostasi, nel mentre. Gli anni passano e vorrei potermi laureare, vorrei poter trovare un lavoro ed iniziare a costruire il mio futuro. Vorrei poter vivere la mia vita quotidiana – spiega – senza dovermi calare le mutande ogni volta che qualcuno mi chiede i documenti: che sia in banca o in posta, che sia sul treno o sull’autobus. Basta pensarci, quante situazioni di vita quotidiana ci richiedono di mostrare il nostro ID?“. Perché sebbene le sentenze di Corte Costituzionale e Cassazione abbiano aperto la strada alle tante persone trans che in questi due anni hanno potuto cambiare genere anagrafico senza operarsi, di fatto lasciano discrezionalità al giudice che si trova a decidere. Si tratta di sentenza, infatti, non di leggi. E la legge 164 del 1982, l’unica che affronta il tema della transessualità, impone la mutilazione dei genitali.