Parlare dei moti di Stonewall è assai rischioso, non solo per il pericolo dell’iterazione e per l’ombra della retorica, ma perché l’atto commemorativo può risolvere il dovere della memoria in esercizio di nostalgia fine a se stesso. Abbiamo molte occasioni legate a date fondamentali che si traducono in parole di circostanza, in atti che ripetono se stessi e che sembrano ormai non incidere più di tanto su certe coscienze o su certa indifferenza collettiva: 8 marzo (tristemente declinato in “festa della donna”), Giornata della Memoria ed altre ricorrenze, che è giusto ricordare e celebrare, possono però rientrare nella logora narrazione di formule cristallizzate che si sentono nei Tg o diventano hashtag sui social quella volta l’anno e nulla più. Non è un caso, credo, se abbiamo ancora femminicidio, discriminazioni e odio razziale.
E allora non parlerò tanto di quello che è successo la notte tra il 27 e il 28 giugno di quarantasette anni fa, perché l’ho già fatto altre volte e penserò con affetto e gratitudine a Sylvia Rivera, senza sforzarmi di ricordarne la vita e le opere perché dovrebbe essere, ormai, storia comune. Vorrei invece tornare su specifici avvenimenti, alcuni belli e altri tragici, di cui abbiamo parlato anche qui su Gaypost.it in più di un’occasione.
L’aggressione al pride di Istanbul, per cominciare. La sua storia è una torta al veleno i cui ingredienti sono quelli di sempre: il pregiudizio sociale diffuso, la polizia che carica, picchia e ti porta in cella, il sentimento religioso di chi, in nome dell’ennesimo dio abbastanza privo di fantasia, ha bisogno di odiare una parte della società ed eventualmente agire violenza su di essa per glorificare l’oggetto della proprio fede. Eppure, nonostante queste premesse, i nostri amici e le nostre amiche Lgbt in Turchia hanno sfidato quel castello di disprezzo e di incomprensione, per cercare di aprire una breccia. Usando il proprio corpo in senso politico: non solo essendoci, facendosi violare, manifestando e manifestando se stessi/e, ma anche appropriandosi della visibilità, in nome di un “io ci sono” che non teme il concetto tradizionale di decoro pubblico, lo scandalo dei devoti o punizioni divine conseguenti. Un gruppo coraggioso di militanti che non si sente inferiore alla massa prevista dalla “norma”. Pensate che sia casuale? Ma andiamo avanti.
La strage di Orlando, ancora. Tanto si è detto e si è detto di tutto. Non mi ripeterò nemmeno in questo caso, ma vorrei soffermarmi un attimo sul luogo in cui si è consumata la tragedia: un bar. Un luogo in cui si esercita il diritto a un’identità, in un contesto molto diverso da quello del paese mediorientale di cui ho appena parlato. In un paese dove ci sono tutti i diritti. Un bar frequentato non per fuggire o nascondersi, ma per ri-conoscersi. Perché lì si vive, appunto, il proprio essere gay, lesbiche, trans e tutto quanto i colori del rainbow esprimono, nelle sfumature di cui sono capaci. Attaccare quel luogo ha significato attaccare quell’accesso all’identità di consideriamo un diritto inalienabile.
E poi, in gran parte d’Europa e oltre oceano, l’accesso al matrimonio egualitario. Pensiamo ancora con affetto ed emozione al sì dell’Irlanda al referendum o alla decisione della Corte Suprema americana, fatti che hanno esteso a tutte le coppie la possibilità di potersi sposare, a prescindere dall’orientamento sessuale. Frutto di un percorso lungo che parte proprio da quei moti, i quali rivendicavano la possibilità di “essere umani” esattamente come chiunque. E questa facoltà di essere tali si esercita non solo nei diritti materiali, ma anche nel poter amare alla luce del sole e sotto la tutela dello Stato – e quindi con il riconoscimento della società – la persona che scegliamo (e che ci sceglie). Facoltà che va oltre la mera unione e che adesso si trasforma nella possibilità di donare nuova vita, come avviene nelle famiglie omogenitoriali, diritto per altro riconosciuto di recente dalla magistratura, nel nostro Paese.
Allo Stonewall Inn, quarantasette anni fa, qualcuno/a non era percepito un essere umano al 100% e di conseguenza veniva trattato in modo disumano, picchiato dalla polizia, preso in una camionetta e portato in prigione (vi ricorda qualcosa?). In quel locale la comunità di allora ha deciso di cambiare la storia. In quel locale che prima serviva a proteggere e a nascondere ciò che eravamo e che poi è divenuto un luogo in cui sperimentare a pieno l’accesso alla propria identità di persone anche gay, lesbiche, trans, bisessuali (che qualcuno mette in discussione anche oggi). In quel locale è nato il senso politico profondo delle nostre rivendicazioni, delle nostre battaglie e di tutte le vittorie venute sino ad oggi.
Non è un caso, per altro, che quel bar sia divenuto monumento nazionale americano, proprio ieri. Questa data, il 28 giugno per capirci, è la data che ci ha trasformato da “froci” in persone. Ricordatevelo e siatene degni e degne. Sempre.