“Perché Sanremo è Sanremo” recitava la sigla di qualche anno fa, ai tempi della sapiente tirannide di Pippo Baudo. Cosa volesse dire quella frase lo abbiamo capito col tempo. Manifestazione nazional-popolare per eccellenza, è il luogo fisico – ma anche categoria dello spirito – in cui ogni anno il Paese reale ritrova qualcosa di sé, che gli somiglia visceralmente, nel bene e nel male. Anche questa edizione non fa eccezione. Vediamo perché.
Ricordate? Un paio d’anni fa a il Festival ci emozionava con la storia dei laccetti: i cantanti in gara si esibivano con i nastri arcobaleno a sostegno delle unioni civili. Si era nel vivo della discussione della legge e il mondo della musica volle dare il suo contributo. E poi cos’è successo?, viene da domandarsi guardando l’edizione del 2018. L’esibizione del mago Forest, infatti, non ci è piaciuta per due buone ragioni. La prima, e meno grave, è una battuta poco lungimirante sull’essere eterosessuali solo alcuni giorni a settimana. La seconda ragione, abbastanza odiosa, è quel riferimento (sempre a mo’ di sketch) alle cinque trans e una “donna vera”. E lì, è inevitabile, cacci un urlo.
Adesso, non voglio ripetermi sul fatto che le donne – cis- e transgender – sono, appunto, donne. Semplicemente. Ma è singolare come, ancora una volta, le categorie dell’identità sessuale vengano utilizzate per “ridere di” invece di “ridere con”. E no, non è che non vogliamo farci una risata, come consigliano quelli che “e che vuoi che sia”. Se volete vi racconto la barzelletta su quanti gay ci vogliono per cambiare una lampadina. Nel caso in questione, invece, il dramma sta nel fatto che la battuta è infelice di per sé: sia per chi si è preso di mira, sia perché ripercorre quella vecchia abitudine di deridere i soggetti fuori norma. Insomma, deve essere davvero triste la vita di certi eterosessuali (ma non solo loro) se hanno bisogno di tutto ciò per evadere dal quotidiano.
E dunque, se prima ci si emozionava per il supporto alle unioni civili, adesso col mago Forest si fanno sketch in odor di transfobia. Segno dell’Italia che virerà a destra? Ai posteri l’ardua sentenza. Che arriverà tra meno di un mese. Ma a proposito di risatine e identità sessuali: ha fatto storcere il naso, e non a poche persone, anche la mezza battuta di Favino su Concita Wurst. Come a dire, vi lamentate del Festival? C’è di peggio. E vai di foto con la drag. Ora, si è anche disposti a credere a uno scivolone innocente, ma occorre ammetterlo: la battuta, più che inoffensiva, è semplicemente banale come il male che nasconde. Non arriva perché non decolla. Facciamo spallucce, ok, ma che palle!
A proposito di avanguardia: Gino Paoli e il suo omaggio a Bindi. Umberto, non Rosy. Parlando del cantante, ormai scomparso, l’autore de Il cielo in una stanza ha detto, testualmente: «Un artista massacrato da un odio che ancora oggi esiste contro i diversi. Che hanno qualcosa in più, non qualcosa in meno». E lì il cielo, nella stanza, lo guardi. Per capire dove dirigere le lodi celesti che ben si adattano in situazioni come questa. E ad ogni modo, una cosa a Gino la vogliamo dire: non si tratta di un odio che ancora oggi esiste e fa fuori i diversi. Si chiama omofobia. E fa fuori chi è visto e narrato come “diverso”. Etero inclusi. Forse Ozpetek e Gabbana saranno soddisfatti, ma la prossima volta possiamo fare di meglio.
Eppure, tutto questo, è mero divertissement da attivista se arriviamo al vero momento clou di questa edizione: l’omaggio di Michelle Hunziker alle donne. Lei comincia a cantare I maschi di Gianna Nannini e dal pubblico un gruppo di signore si ribella. Parte la solita finzione scenica, ad uso e consumo dell’Ariston, in cui l’universo femminile è ancora rappresentato come “dolcemente complicato”, come insieme di mogli, sorelle e madri. In un rigurgito mistico della presentatrice elvetica, si azzarda anche un paragone con la Madonna (non intesa come cantante). Un siparietto paternalista e reazionario come pochi, insomma. Che ci fa capire che Hunziker – insieme a tutta l’operazione in corso – sta ai diritti delle donne come io sto alla salvaguardia dell’eterosessualità. Degradante.
Nonostante tutto, in questa discesa verso l’abisso, una luce si vede. Sì, è lei: la “vecchia che balla” che tanto ci ha emozionato nell’esibizione de Lo stato sociale. Una donna – ma guarda un po’! – che va fuori ogni schema di interpretazione dei ruoli. Non più giovane, ma ballerina acrobatica. Non rassicurante, perché si prende il palco in modo non convenzionale. Esercita, in altre parole, un atto di volontà che disobbedisce alle regole. E ce la fa amare. Se non l’avete ancora incrociata (il suo vero nome è Paddy Jones) potete vederla nel video del gruppo (qui di seguito) o in quello riproposto su Youtube dalla Rai. E poi ascoltate l’ovazione finale del pubblico. Il miglior caso di donna che si prende ciò che le appartiene di diritto: la propria vita. Ditelo a Michelle. E pure a tutti gli altri.
Come dite? La barzelletta? Ah, sì: quanti gay ci vogliono per cambiare una lampadina? Sei. Uno per avvitarla e gli altri cinque per dire “favoloso!”. Non so voi, ma io la trovo geniale.
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