Sta molto facendo discutere, in queste ore, la notizia che Pierferdinando Casini potrebbe essere candidato a Bologna in tandem con Sergio Lo Giudice nella coalizione di centrosinistra capeggiata dal Pd. La presenza di Casini nella stessa scheda del presidente onorario di Arcigay, senatore uscente e tra i promotori della legge sulle unioni civili, ha provocato diverse reazioni nell’associazionismo Lgbt bolognese e non solo. Sebbene, vale la pena precisarlo, Casini non sia candidato del Pd (come in molti ripetono sui social network) ma della lista “Civica Popolare” guidata da Beatrice Lorenzin, gli elettori e le elettrici del Pd saranno costretti a votarlo. E lo stesso succederà, con buona probabilità, in molti altri collegi.
Pierferdinando Casini
È la trappola della nuova legge elettorale che non prevede il voto disgiunto tra proporzionale e uninominale. Chi andrà a votare avrà nelle mani due schede: una per il Senato (se ha compiuto 25 anni) e una per la Camera e potrà esprimere preferenze a formazioni diverse per ognuno dei due rami del Parlamento. Quello che non si potrà fare, invece, sarà votare coalizioni diverse nella stessa scheda.
Una legge pensata per favorire le coalizioni a danno delle formazioni che decidono di correre da sole, com’è noto, ma che rischia di rivelarsi, appunto, una trappola.
Ed è il caso di Bologna dove sia Lo Giudice, senatore uscente, che Casini si presenterebbero al Senato (l’ex Dc è certo, di Lo Giudice ancora si discute) e si ritroveranno sulla stessa scheda. Votando l’uno, inevitabilmente si vota anche l’altro, anche se non si mette la crocetta sul nome.
In un articolo pubblicato ieri dal Corriere di Bologna, i due presidenti di altrettante associazioni Lgbt bolognesi hanno espresso il loro disappunto per quella che si prospetta essere una scelta quasi obbligata. Da una parte il presidente di Red, Mattia Manfrin, ha dichiarato che “Renzi fa un errore a candidarlo qui” riferendosi a Casini, e che “il mio voto non è più scontato”. “Trovo assurdo che il Pd decida di candidare proprio qui persone contro i nostri ideali dopo anni di lotta per i diritti civili – continua Manfrin -. È controproducente: Renzi sta commettendo un grosso errore”. “Il nome di Casini fa male a nomi come il suo (di Lo Giudice, ndr)” aggiunge Vincenzo Branà, presidente di Arcigay Il Cassero.
E la risposta di Lo Giudice non sembra convincere chi in queste ore commenta la notizia. Ricorda, Lo Giudice, come non sia certo la prima volta che il Pd si presenta alle elezioni in coalizione con forze, per così dire, moderate. In alcune risposte date alle critiche apparse sui social network , il senatore cita l’Ulivo e l’Unione con Mastella e Dini. Aggiungiamo noi che lo stesso Pd nasce dalla fusione del vecchio Pds con la Margherita, costola della Democrazia Cristiana. Al quotidiano bolognese Lo Giudice dichiara che non votare la coalizione guidata dal Pd (e, quindi, anche Casini) significa mandare Salvini al governo. Una prospettiva non certo favorevole per chi si batte per diritti civili.
Il senatore dem ricorda anche che Casini ha votato la legge sulle unioni civili. Fatto certamente vero, ma bisogna ricordare che Casini era (ed è) nella maggioranza di governo e che su quella legge proprio il governo mise la fiducia. Voto avvenuto non prima di avere stralciato le stepchild adption proprio per assecondare le richieste dell’alleato di governo e dell’ala cattolica del Pd. “È grazie a gente come lui se l’Italia è così indietro sui diritti civili” fanno notare in tanti in queste ore.
Per i cinque anni della legislatura che si sta chiudendo, alle proteste per le posizioni retrive quando non evidentemente omofobe espresse dal partito allora guidato da Alfano, il Pd ha spiegato che bisognava fare buon viso a cattivo gioco, perché il partito aveva “non vinto” le elezioni, che in parlamento per fare le leggi servono i numeri e quei numeri li poteva garantire solo Alfano (e Casini e Lorenzin ecc), che bisognava stringere i denti e, pazienza, cedere qualcosa per ottenere almeno una legge. Monca, ma una legge. Ragionamento che non fa una piega, in termini di real politik. Almeno finché parliamo del post elezioni, quando bisogna fare i conti con i risultati, i seggi e i numeri necessari per avere una maggioranza. Ma prima? Cioè, in fase di scelta degli alleati per le elezioni, di elaborazione di programmi e di selezione dei soggetti con cui portarli a termine?
Adesso le cose sono diverse. Adesso ogni forza politica sceglie con chi allearsi e sulla base della condivisione di quali principi, valori e programmi. E Casini, Lorenzin e gli altri di “Civica Popolare” non sono certo noti per essere favorevoli ai diritti delle persone lgbt e delle loro famiglie. L’attuale ministra della Salute si è più volte detta contraria alle adozioni per le coppie dello stesso sesso, per fare un esempio, e Casini ha detto chiaramente che sì, andavano bene le unioni civili, purché ben distinte dal matrimonio. E ancora, lo stesso Casini si è detto contrario a introdurre l’orientamento sessuale come aggravante per le discriminazioni, per non parlare degli attacchi frontali ai pride.
I sondaggi parlano chiaro: il Pd, da solo, non può aspirare a vincere le elezioni. Per provarci deve, necessariamente, allearsi con qualcuno. Con chi? “Civica popolare” è la scelta giusta? Sufficiente a raggiungere le percentuali necessarie per tornare a governare? Al momento, sempre i sondaggi sembrano dire di no, ma quali erano le alternative?
La famosa “unità della sinistra” e, quindi, Liberi e Uguali. Com’è noto, LeU è formata per una larga fetta da fuoriusciti del Pd (da Possibile di Civati a Mdp di Bersani) dopo scissioni dolorose e piene di polemiche spesso molto personali e poco politiche.
Presupposti che rendono difficile se non impossibile un’alleanza, a così breve distanza da quei divorzi. Di chi è la responsabilità? Ognuna delle due parti, ça va sans dire, la attribuisce all’altra, entrambe con qualche ragione. Il punto è che gli alleati elettorali si scelgono e ora è fuorviante dare agli elettori, scontenti e delusi da queste alleanze, la responsabilità dell’eventuale sconfitta.
Non è azzardato immaginare che a persone come Sergio Lo Giudice o Monica Cirinnà alleati del genere stiano più che stretti, ma è altrettanto chiaro che il margine di manovra è molto ristretto. Fosse non altro perché dentro il Pd fanno parte della minoranza orlandiana, l’unica attorno a cui gravita un’organizzazione lgbt (Dems Arcobaleno), ma che può solo sperare di non ritrovarsi nei posti in lista più a rischio, a tutto vantaggio dei renziani e dell’alleato conservatore. Una trappola, come s’è detto. Che rischia di compromettere l’impegno di questi anni e che potrebbe non limitarsi a Bologna. Se la città delle due torri è, infatti, il collegio naturale di Casini e Lo Giudice, Roma lo è di Lorenzin e Cirinnà che, però, non si sa ancora se si candideranno per lo stesso ramo del Parlamento o no.
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