di Chiara Zanini
And Just Like That è disponibile da questa settimana su Sky, e non sarà una serie qualunque. Nel 1998, infatti, la HBO fece una delle scelte più astute per la sua linea editoriale, mandando in onda una serie destinata a passare alla storia, composta di sei stagioni di successo in tutto il mondo (in alcuni casi in versione censurata), cui si aggiunsero due film discutibili. Le protagoniste erano quattro donne attorno ai 35 anni, e già questa era una cosa quasi mai vista prima di allora. Ma la vera novità è che parlavano apertamente di sesso. Due di loro usavano persino dei sex toys! E no, a questo non eravamo abituatə. La chiave del successo di SATC sta tutta qui, tanto da farci digerire una serie di cose che nel 2021, una volta saputo che che negli Stati Uniti si stava lavorando a un reboot, non possiamo più accettare.
Senza troppe illusioni
Ideata da Darren Star, il creatore di serie allora molto amate come Beverly Hills 90210 e Melrose Place, Sex and the city si basa su un romanzo autobiografico di Candace Bushnell, scrittrice classe 1958, ed è ambientata in una New York in cui un po’ tuttə vorremmo vivere almeno per un periodo. Abbiamo iniziato a vederla nel 2000, due anni dopo la messa in onda in patria, su Telemontecarlo, poi diventata La7, e per un periodo è potuto vedere nella stessa serata anche The L Word, altra serie rivoluzionaria perché le amiche in questo caso erano quasi tutte lesbiche.
Il reboot And Just Like That è on demand su Sky dal 9 novembre e in streaming su NOW, ma anche in prima serata da sabato 11 dicembre su Sky Serie, mentre dal 18 dicembre sarà disponibile anche in italiano. Ci sono diversi motivi per cui una femminista che nel 2021 si consideri intersezionale apprende di questo lancio senza farsi troppe illusioni, memore di ciò che è stata SATC. Vediamone alcuni.
I limiti di Sex and the city
Le protagoniste di SATC sono quattro donne bianche privilegiate. Le questioni che oggi sono definitivamente aperte dalla critica – anche bianca – attorno ad aspetti come la classe, la razza, il genere e l’orientamento sessuale vent’anni fa erano silenziate, così come l’abilismo e l’ageismo. Ma ora che abbiamo capito quanto siano rilevanti dobbiamo riconoscere, ad esempio, che le persone lgbt+ in SATC quasi non esistevano.
Il migliore amico di Carrie, la protagonista, è Stanford. A livello narrativo Stanford non è altro che uno stereotipo vivente utile a rafforzare i tipici pregiudizi dettati dal dogma eteronormativo: effeminato e frivolo, utile a suggerire che l’amicizia tra una donna e un uomo non è mai possibile quando entrambi sono eterosessuali (e se c’è, allora non è limpida). La sintesi delle tre cose in croce che interessano a Stanford la fa Samantha (che nel reboot è quasi assente, ma non facciamo spoiler, giuro): Gay men understand what’s important: clothes, compliments and cocks
Sex and the City e gli stereotipi su sesso e persone Lgbt+
Nella puntata pilota si erano viste delle drag queen in compagnia della cinica Miranda, mentre in seguito un’altra protagonista, Samantha, presentata come una predatrice sessuale (a riprova di come il giudizio su chi ama il sesso non sia assente nemmeno qui) avrà una storia con una donna. Non si può quindi dire che le persone queer fossero del tutto bandite nella serie, come invece era stato – se rimaniamo nel mainstream – nella maggior parte dei casi durante e subito dopo il periodo di maggior diffusione dell’hiv, ma si può parlare di come queste venissero presentate.
Oggi rifare SATC sarebbe anacronistico, non avrebbe forse un pubblico, di sicuro non vincerebbe Emmy e Golden Globes. E non faremmo che parlare di come in fondo le responsabilità autoriali di SATC nella sua finzione televisiva siano da rintracciare nel lavoro di due uomini medi: oltre a Darren Star (attualmente al lavoro su Emily in Paris, disponibile su Netflix) c’era Michael Patrick King, che negli stessi anni si faceva conoscere per un’altra serie di grande impatto e con personaggi gay maggiormente caratterizzati, ossia Will & Grace.
Una rappresentazione non realistica delle identità Lgbt+
L’assenza di una rappresentazione che possa dirsi realistica delle identità lgbt+ è qualcosa di cui spettatrici e spettatori iniziarono per forza di cose a scherzare anche nel web. Nel 2009 l’artista digitale Elisa Kreisinger, conosciuta come Pop Culture Pirate, andò oltre, caricando su Youtube un remix parodico, un montaggio di quanto effettivamente visto, ottenuto senza modificare nulla dell’originale, ma assemblato in modo tale da lasciar intendere un desiderio lesbico costante da parte delle protagoniste della serie:
Solo nel 2018 l’attrice Sarah Jessica Parker, che interpreta Carrie, intervenendo al festival Future of Everything organizzato dal Wall Street Journal ha riconosciuto che “There were no women of colour, and there was no substantial conversation about the LGBTQ community.”
Le frasi su bisessualità e sex work
Ciò che proprio non si può tollerare è però un’affermazione fatta dal suo personaggio a proposito della bisessualità, tanto più grave se consideriamo che Carrie è descritta come una personalità con un certo seguito e che merita di essere ascoltata. Nella sua rubrica sul New York Star Carrie scrive infatti che non crede che la bisessualità possa esistere, e lo fa dopo aver conosciuto un coetaneo che le ha parlato da subito e con grande naturalezza del fatto di essere bi: «I’m not even sure bisexuality exists. I think it’s just a layover on the way to Gaytown».
Le amiche Miranda e Charlotte non prendono certo le distanze. Non va meglio quando si parla di prostituzione e di persone trans. A proposito delle sex workers che vivono nel suo stesso quartiere Samantha dice: «I am paying a fortune to live in a neighbourhood that’s trendy by day and tranny by night».
Samantha si comporta spesso come il maschio medio. Commenta una delle sue avventure con un uomo afrodiscendente si rivela un Montanelli qualsiasi: «Precisely, I don’t see colour, I see conquest».
Le criticità di Sex in the city su Islam e medio oriente
Va sottolineato che questo non avviene in un piccolo borgo monocolore, ma in una metropoli in cui le persone non bianche sono quasi il 60%. Per non parlare dell’orientalismo che si fa islamofobia nel secondo film che segue la serie, uscito nel 2010, che vede le quattro amiche ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi. Il critico Wajahat Ali nella sua recensione per Salon le descrive come Barbie imperialiste: «Il film di Michael Patrick King, squisitamente privo di toni, è il Viagra cinematografico per gli imperialisti culturali occidentali che ancora dipingono in modo ignorante e impreciso l’intero Medio Oriente (e l’Iran) come uno Shangri La con un disperato bisogno di liberazione da nativi ignoranti e arretrati».
I cambiamenti nel reboot
Sex and the city, rivista oggi, appare invecchiata male. Quando fa un passo avanti, ne fa anche uno indietro. E non avrebbe senso dirci che “è solo una serie tv”, perché la tv produce immaginari e crea tendenze. Ha quindi delle responsabilità. Evidenziare i tanti aspetti problematici di SATC, però, non è stato vano. Chi ha lavorato al reboot ne ha tenuto conto e il team di scrittura ora include tre autrici non bianche: Samantha Irby, Rachna Fruchbom e Keli Goff. È stato anticipato che vedremo Carrie partecipare a un podcast lgbt+ friendly, mentre Miranda, che è avvocata, sta approfondendo le leggi sui diritti umani. Meglio tardi che mai.
Avrà forse contato anche la militanza politica di Cynthia Nixon, l’attrice che interpreta Miranda, che si definisce queer, ha sposato una donna e nel 2018 ha corso per la carica di governatore di New York sfidando Andrew Cuomo. Ha vinto lui, ma lo scorso agosto si è dovuto dimettere a causa delle accuse di molestie sessuali da parte di molte donne. New York è cambiata e siamo cambiatə anche noi, per fortuna.