Ho avuto il piacere di assistere al dibattito Sex work is work che si è tenuto ieri alla Casa Internazionale delle Donne, a Roma. Ciò che ho visto, con i miei occhi, è la narrazione di donne che hanno dimostrato consapevolezza di quello che sono e di cosa vivono (o che hanno vissuto) sulla loro pelle. Una narrazione fatta di parti di sé, condivise in un percorso comune in cui mettersi in gioco e cercare il confronto.
Apro una piccola parentesi, prima di andare avanti: viviamo in tempi in cui le conquiste del passato rischiano di non essere più patrimonio comune. Principi e ideali appaiono sempre meno come valori fondanti di una visione del mondo (si spera migliore) e sono, invece, messi in discussione da un sistema di pensiero che possiamo definire reazionario. Paradossalmente, ciò che dovrebbe essere conservato – il valore fondante – è invece tradito da frange che non vogliono mettere in discussione le loro elaborazioni e i loro stessi percorsi politici.
Si creano così movimenti che potremmo definire “conservatori” (quanto meno nelle pratiche quotidiane) della propria identità politica e per non rianalizzarla – rispetto alla contemporaneità e alle sue sfide – arrivano a sovvertire i valori di riferimento. Lo scopo sembra essere quello di non permettere alle nuove generazioni di progredire (creare nuovo pensiero, cioè) sul solco di quegli stessi ideali. Un esempio, tra molti, è la discussione sulla gestazione per altri che sembra tradire l’assunto femminista per cui “il corpo è mio e me lo gestisco io”. Il dibattito sul sex work percorre lo stesso binario.
Una critica che si fa alle sex worker è quella di essere strumenti del patriarcato: la prostituzione è commercio del corpo femminile ad uso e consumo del piacere maschile. Non esiste libertà di scelta, quando vendi il tuo corpo. Sei comunque schiava. E se rendi mercificabile il tuo corpo, è il pensiero di una parte del femminismo, rendi potenzialmente merci (e quindi schiave) tutte le donne. Una visione molto critica sulla prostituzione, generalmente intesa, che però non solo non distingue tra “scelta” e “tratta” (per altro unanimemente condannata), ma che non tiene conto di quelle ragioni di chi vuole fare questo mestiere. La domanda che sorge è: è possibile che il sex work sia una forma di autodeterminazione?
Si sono interrogate su questo aspetto le relatrici del convegno di ieri. Delle molte cose dette e delle molte storie raccontate, emergono alcuni filoni che proverò a isolare senza avere la pretesa dell’esaustività. Il primo, evidente, è il sistema lucrativo della società attuale, emerso nel discorso dell’attivista Pia Covre. Qualsiasi lavoro, a pensarci bene è vissuto come sfruttamento, a prescinde dal tipo di professione svolta. In una società che ti espone a produrre il massimo, riducendo al minimo le soddisfazioni personali ed economiche, esiste una fetta di persone (donne, ma non solo) che sceglie di ribaltare la prospettiva: si decide l’uso che si fa del proprio corpo, i tempi, il prezzo. «Non sono loro che usano me» dichiarava una delle sex worker, riferendosi ai clienti «sono io che uso loro».
Il secondo filone è quello dell’alternativa professionale. In uno dei racconti letti da un’attivista del Collettivo Ombre Rosse, si pone l’accento sul fatto che la società cerca di scongiurare la scelta del sex work, senza però offrire alternative sostenibili, che diano soddisfazione economica senza produrre sfruttamento. Non prostituirsi per essere sottopagata in un call center o, “meglio” ancora, vestire i panni della sposa sarebbe libera scelta e autodeterminazione, rispetto alla propria identità?
Un terzo filone, ancora, è quello dei rapporti di potere determinati dentro il sistema patriarcale e nel sistema economico che da esso discende: il capitalismo. Nella sua relazione, Giorgia Serughetti – ricercatrice dell’università Milano Bicocca – ha raccontato di come, con il fenomeno dei migranti, si è scoperto che in alcune realtà sono state le donne a chiedere ai richiedenti asilo (maschi) prestazioni sessuali dietro compenso. In quel contesto specifico, il soggetto privilegiato (stavolta la donna bianca) esercita così il suo potere su quello in condizione di svantaggio (il profugo straniero). Una realtà che ci spinge a rimodulare e ridefinire molti paradigmi su tali rapporti, pur mantenendo la critica al capitalismo
Al di sopra di questi e molti altri temi – che è impossibile riportare in questa sede – ciò che emergeva in modo dirompente, e non senza qualche concessione alla tenerezza che l’incontro con l’umanità produce (o dovrebbe produrre), era la dignità delle persone che hanno messo in campo le loro storie, le loro vite e le loro idee. A guardarle e ad ascoltarle, facevi fatica a vederle come povere donne vittime e incapaci di scegliere per se stesse, secondo quella che è la vulgata di quel femminismo (vecchio?) che decide chi è libera e chi no. Che decide chi è femminista e chi non lo è.
E non ho potuto fare a meno di amare visceralmente l’intervento di Rachele Borghi che ha esordito con un monologo in cui spiegava le ragioni per cui non sapeva quale abito indossare: tailleur e tacchi no, o sarebbe stata vista come serva del patriarcato. Elegante ma sobria nemmeno, o sarebbe stata vista come complice del capitalismo. Con la maglietta della Sorbona, l’università in cui lavora, men che mai, o sarebbe stata interpretata come collaterale alle istituzioni. Così, ha scelto l’“abito” più neutro possibile: la nudità. Ed è così che è andata avanti per almeno venti minuti, esponendo nuda le ragioni di chi vuole fare le proprie libere scelte e alternandole alle parole – spesso violente e quasi “maschili” – di coloro che, anche dentro il femminismo, vogliono impedire di scegliere.
Non ho i titoli per valutare cosa è (o meno) il femminismo, sebbene ricordi che le mie amiche femministe di un tempo si relazionavano così: partendo da sé. So però che quanto visto ieri è molto simile a ciò che mi è stato insegnato dentro il movimento Lgbt. L’ascolto dell’altro/a è il rispetto della sua specificità, senza sguardi stigmatizzanti. E se non è chiaro a cosa alludo, si legga il post che Rossana Praitano ha scritto sul suo profilo Facebook, ricordando cosa significa essere militanti arcobaleno. Ascolto che impone, per altro, una regola fondamentale quando si tratta di guardare alla vita dell’altro/a da sé: entrarvi in punta di piedi, come ci insegna il pensiero di Graziella Priulla.
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