Credeva che nel sesso tutto dovesse essere lento
per non spaventare gli spiriti animali
E. White, Il nostro caro ragazzo
«Vivere e rimanere giovani» canta Rachele Bastreghi in “L’amore e la violenza”, ultimo disco (2017) dei Baustelle. Due frasi brevissime e, al centro, una contraddizione, un’affermazione insostenibile, un’utopia: come si fa a vivere, rimanendo giovani? Questa è la domanda di tutta la vita, alla quale ciascuno di noi vorrebbe trovare una risposta.
Ci sorprendiamo a farcela quando notiamo che è spuntato un altro capello bianco, quando l’orizzonte ampio per le molteplici possibilità che si offrono, inizia a restringersi, incanalandoci verso una direzione precisa; quando ci fermiamo ad osservare la disperazione dolce di chi si affida al chirurgo plastico come a un padre spirituale o quando si verifica un cambiamento radicale nella nostra vita e vorremmo che la rivoluzione non lasciasse segni, visibili o invisibili, fuori o dentro.
Non fissare mai un punto
Solo Guy, tra gli esseri umani, sembra aver trovato una risposta: Guy – un metro e novanta di altezza, labbra carnose, orecchie da elfo, occhi neri con riflessi ambrati «color miele bruciato» – modello omosessuale per sempre giovane, per sempre bello; Guy, il protagonista dell’ultimo capolavoro di Edmund White, “Il nostro caro ragazzo”, pubblicato in Italia pochi mesi fa da Playground (2016) per la traduzione M. Adani.
Qual è il segreto di Guy, Dorian Gray degli anni Ottanta, senza alcun ritratto da nascondere? «Sei bellissimo e tutti proiettano su di te quel che desiderano. Sei un buco nero nello spazio infinito» spiega Pierre-George, il suo manager. Anche il narratore tenta di dare una giustificazione: «Per anni si era allenato a non provare nostalgia, a non riconoscere i film, le serie televisive o le canzoni pop dei decenni precedenti. Non riconosceva mai nulla che fosse precedente al 1980». Entrambe le spiegazioni non convincono il lettore fino in fondo. Qual è il tuo segreto, Guy? «Per sembrare giovani è quello di muovere continuamente gli occhi, di non fissare mai un punto, di essere il primo a sussultare».
Ripugnanti e poetici
Edmund White, raccontando la storia di Guy (dai diciassette anni fino ai quaranta, con i suoi spostamenti dalla povera provincia francese in cui era cresciuto, fino alle passerelle di Parigi e, poi, di New York), offre una galleria di personaggi contagiati, ciascuno a modo proprio, da questa ossessione: godere il più possibile della vita, consumarla, ma restare giovani. Pensiamo a Edouard, anziano barone che passa voracemente le sue giornate tra cene sontuose, incontri sadomaso e orge con bellissimi ragazzi e giovani modelli, alle quali, però, partecipa da semplice spettatore, da voyeur, quasi a non voler contaminare con la sua opulenta vecchiezza il paesaggio lunare di quei corpi selvatici, riversati gli uni sugli altri. Guy si ritroverà, senza volerlo veramente, a prendere parte ai festini del barone, in cambio di donazioni generosissime.
Anche Fred, ricco produttore cinematografico di sessantatré anni (specializzato in film per spettatori neri), lascerà in eredità a Guy una fortuna, ma il loro rapporto sarà diverso. Fred è un uomo che ha da poco lasciato sua moglie perché si è scoperto (si è accettato) omosessuale tardi e, per recuperare la giovinezza perduta, si è sottoposto a varie operazioni chirurgiche, che gli hanno lasciato cicatrici dietro alle orecchie, sul corpo, sulle mani («mi hanno bruciato le macchie della pelle dalle mani»): «Voglio essere il numero uno – afferma – Voglio che la gente dica: “Chi è quel giovane stallone?”».
Anche in questo personaggio fame di vita e ossessione per la giovinezza vanno di pari passo: «I vecchi hanno troppe zavorre emotive. Hanno già vissuto la loro vita. E io sono solo all’inizio della mia. Voglio un altro ragazzo come me». Quelle che White crea sono figure in apparenza ripugnanti ma, in sostanza, incredibilmente poetiche: assalite da una febbrile esigenza di vita e, al tempo stesso, di purezza, in una tensione irresolubile tra meschino e incontaminato.
La bolla della giovinezza
A differenza di Edouard e di Fred, Guy non è gravato dalla lotta alla contraddizione tra «vivere e rimanere giovani»: la straordinaria architettura dei suoi geni gli consentiva di dimostrare in maniera disinvolta meno anni di quelli che realmente aveva, tanto da potersi spacciare per ventenne a New York, dove, sotto consiglio del manager Pierre-Georges, si era trasferito per ricominciare la sua carriera di modello che a Parigi aveva già fatto il suo corso breve e luccicante.
Guy attraversa con favolosa leggerezza tutta la prima metà del romanzo, a parte qualche sprazzo di dolenza materialistica: sullo yacht del barone «osservava quegli uomini a petto scoperto, muscolosi, abbronzati, e capì in quell’istante esatto, sulla pista da ballo, che nel giro di qualche anno ognuno di loro si sarebbe trasformato in un vecchio malfermo, e dopo qualche anno ancora, in cenere». Però con la morte di suo padre e quella di Fred causata dall’inizio della drammatica diffusione dell’Aids, la bolla luminosa della sua giovinezza esplode. E Guy si riconosce solo, davanti allo specchio, per quel che è: un uomo ormai di quarant’anni.
Andrés
Qual era stato il segreto della sua gioventù eterna? Eccolo, finalmente: «Pensava che avrebbe preservato la propria giovinezza non permettendo a nessuno di ferirlo emotivamente, rimanendo immune all’intensità dei sentimenti». A degli avvenimenti così drammatici Guy non riusciva più a rispondere con la sua solita indifferenza. Non riusciva più a preservare intatto quel suo giardino. Così Guy inizia a invecchiare, a percepire la contraddizione che divampava sulle facce avvizzite e tumide di Fred, di Edouard, sui loro corpi ritoccati chirurgicamente, estenuati dalla febbre di vivere.
Ma qualcosa nella bellezza di Guy aveva cominciato ad incrinarsi ancor prima del contatto diretto con la morte.
Quando, cioè, era entrato in contatto con il suo esatto contrario, l’amore, e aveva conosciuto Andrés, dottorando di Storia dell’arte, e se ne era innamorato. La prima, vera crepa si era aperta sulla sua fronte quando aveva smesso di fingersi ventenne con Andrès, dichiarandogli la sua vera età: «Ho trentotto anni. Ora ti faccio vedere il passaporto». E lui gli aveva risposto: «Ti amerò per sempre». E avevano fatto l’amore. Accadeva spesso tra loro: «Ad Andrés piaceva fare sesso almeno cinque volte al giorno», «Fare l’amore con Andrés era un lavoro a tempo pieno». Il ragazzo sembrava preso da una frenesia che nasceva come per placare una forma di accidia da studio.
Da Whitman a Queer as Folk
L’eros come promessa di giovinezza e sintomo di vitalità è descritto nei minimi dettagli da Edmund White, senza reticenze o pruderie: un eros esibito senza sensi di colpa, cantato, mai volgare, sempre vero, vivo, secondo una “retorica dell’omoerotismo” che collega questo libro e tutta la produzione di White alle “Foglie d’erba” di Whitman (1881) e alla serie tv di “Queer as Folk” (2000). Un eros che è capace di mostrarsi nei suoi aspetti più crudi, violenti, spregiudicati e in quelli più teneri: «Come aveva intitolato Courbet il suo dipinto di una fica? L’origine del mondo? Forse Guy non poteva dargli dei bambini, ma Kevin avrebbe continuato a provarci».