E dunque per una sindaca in prima fila al Gay Pride e che nomina come assessore alle famiglie un esponente di Arcigay, ce n’è un’altra che fa sparire dal programma le questioni lgbt e che come prima visita ufficiale sceglie di andare in Vaticano.
Per un sindaco disposto a celebrare le unioni civili anche in assenza dei decreti attuativi, ce n’è un altro che accosta l’unione fra due persone dello stesso sesso a quella fra un uomo e un cavallo e che invoca l’obiezione di coscienza per non celebrare le unioni civili.
Su quelle credo che non valga nemmeno perdere il tempo per commentarle, perché sarà la storia a spazzare via questi rigurgiti medievali, come è avvenuto per altri grandi questioni, pur con tutti gli strascichi che ci portiamo tuttora (ad esempio l’apartheid).
Credo che invece valga la pena soffermarsi sull’invocata obiezione di coscienza del Sindaco, perché se è vero che i pensieri e il sentire dei singoli possono viaggiare a velocità differenti, così non è per la legge che deve essere uguale per tutti e da tutti rispettata, senza eccezioni, tanto più se si è un primo cittadino.
Proprio alcune settimane fa, infatti, su questo sito, abbiamo pubblicato una guida di Gay Lex sull’obiezione di coscienza dei sindaci alla celebrazione alle unioni civili: brevemente vorrei quindi tornare su alcuni punti imprescindibili.
Il testo della Legge 76/2016 non prevede il diritto all’obiezione di coscienza.
Tale diritto deve essere previsto espressamente, come affermato chiaramente dalla sentenza n. 467 del 1991 dalla Corte Costituzionale e come avviene ad esempio con la legge 194 del 1978 sull’interruzione di gravidanza (e comunque con dei limiti).
Quello che può fare un sindaco che non voglia celebrare personalmente delle unioni civili è, al più, delegare qualcun altro, come già accade per i matrimoni tra eterosessuali (soprattutto nelle grandi città in cui è impensabile che un sindaco possa celebrare tutti i matrimoni).
Sarebbe interessante valutare se un’eventuale delega data espressamente non per ragioni d’ufficio ma per ragioni “di coscienza” (come in questo caso) non rappresenti essa stessa un atto discriminatorio.
In quel caso dunque si potrebbe ricorrere in sede civile e penale per far sì che l’unione civile venga celebrata.
Come giustamente dice il caro amico e collega Angelo Schillaci, infatti, “alla libertà di coscienza del pubblico ufficiale si oppone, dunque, un più generale dovere di solidarietà, che si traduce nell’obbligo di garantire il corretto svolgimento della funzione, nell’interesse della legge e della comunità. La funzione pubblica, infatti, è posta a presidio della comunità, e deve essere orientata alla garanzia dell’uguaglianza fra tutti i cittadini”.
Secondo alcuni commentatori, infine, essendo il sindaco un rappresentante del Governo, qualora appunto si rifiutasse di applicare la legge (e dunque non consentirebbe nel proprio comune a due persone di unirsi civilmente né personalmente né delegando) potrebbe addirittura rischiare di decadere e che al suo posto venga nominato un commissario.
Il mio consiglio è quello di dare il giusto peso a certi proclami e concentrarsi invece nel predisporre tutta la documentazione necessaria per unirsi civilmente.
Perché a questo punto, al netto di affermazioni come quelle del sindaco di Rovigo, non ci resta che aspettare l’emanazione del decreto provvisorio e vedere finalmente celebrate le prime unioni civili!
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