Il sito Outsports, che dà voce a chi rappresenta lo sport arcobaleno ha dichiarato che dalle ultime olimpiadi (Londra, 2012) a quelle attuali (Rio 2016) il numero degli atleti LGBT che hanno dichiarato apertamente la loro preferenza sessuale prima o dopo i giochi sono raddoppiati. Infatti, ci sono circa 50 nomi di uomini e donne LGBT a Rio, rispetto a Londra in cui erano 23. L’aumento di tale numero sembrerebbe derivare dall’esposizione mediatica delle tematiche LGBT negli ultimi anni.
Da Tom Daley all’americana Megan Rapinoe, passando per la campionessa di Judo Rafaela Silva in Brasile che ha dedicato la sua vittoria alla fidanzata accostando il suo coming out alla propria rinascita atletica, per non parlare delle proposte di matrimonio a bordo campo.
Ma perché gli atleti difficilmente “escono fuori”?
Seppur a livello internazionale esistano poche ricerche pubblicate sull’argomento omosessualità e sport, i media affrontano, invece, sempre più questa tematica dal momento in cui i coming out sono più frequenti. Nello sport omosessualità, coming out, omofobia sono temi intrecciati tra loro, in un ambiente che limita la possibilità di esprimere liberamente e serenamente il proprio orientamento sessuale, soprattutto in alcune discipline e nel mondo maschile. Questo costringe molti atleti a vivere la propria esperienza in modo non completo, solo per continuare a mantenere alcuni stereotipi.
Lo stereotipo dell’atleta maschile è caratterizzato da fisicità e mascolinità. Per questa ragione risulterebbe più difficile accettare un coming out da parte di uno di loro: essere gay mina l’immaginario dell’uomo virile e forte, “minacciando” il mondo dello sport maschile che più rappresenta la virilità e il machismo. Banalmente, è come se tutti quelli che abbiano tirato un calcio ad una palla, diventassero gay solo perché un calciatore fa coming out.
Invece, lo stereotipo dell’atleta femminile, va contro l’immaginario della donna come persona più emotiva, debole e talvolta fragile rispetto alla figura maschile. Il mondo dello sport, infatti, richiede alle atlete delle caratteristiche fisiche e psicologiche considerate quasi più maschili, come a renderle “meno donne”. Nel mondo sportivo è più alto il numero delle donne che fanno coming out rispetto agli uomini ed è maggiormente accettata l’omosessualità femminile rispetto a quella maschile. (Rampin e Aceti, 2013).
Fare coming out in ambiente sportivo non è certamente un dovere, ma deve sicuramente seguire il benessere psico-fisico dell’atleta che non deve sentirsi limitato qualora avesse intenzione di farlo. Esprimere liberamente sé stessi a livelli internazionali e mondiali significa mandare un messaggio di sprono a quanti, ancora, non riescono ad emergere e a “uscire fuori”.
L’associazione inglese Stonewall afferma infatti che, al di là dei possibili vantaggi economici, il coming out di una persona nota incrementerebbe notevolmente la fiducia in sé stessi di molti fans che riuscirebbero a non vedere il proprio orientamento sessuale come un ostacolo al successo professionale, identificandosi con la persona famosa o semplicemente sentendosi ad essa affine.
Tale meccanismo potrebbe, così, iniziare a smussare e rompere la cultura eterosessista che governa il mondo dello sport il più delle volte e permettere alle eventuali situazioni di isolamento, silenzio e paura di uscire allo scoperto.
In tal senso, un cambiamento volto a contrastare l’atteggiamento omofobo nello sport sembra prendere sempre più piede attraverso il moltiplicarsi di fondazioni, associazioni e federazioni sportive LGBT a livello nazionale ed internazionale che tentano di porsi come alternativa culturale a quegli stereotipi, maschili e femminili caratteristici del mondo dello sport o con i vari coming out sempre più frequenti degli atleti omosessuali.
Di questa olimpiade appena terminata si ricorderà certamente la nuotatrice italiana Rachele Bruni, che dedicando la vittoria “alla sua Diletta”, ha contribuito a rompere un silenzio, facendosi portavoce di un cambiamento che è possibile, volto ad abbattere stereotipi e pregiudizi. Ha contribuito, col suo piccolo grande gesto a rendere “normale” ciò che dovrebbe esserlo, ma ancora non lo è.