Alla luce della sentenza dello scorso 1 marzo, con cui il Tribunale per i minorenni di Roma ha accolto il ricorso di una coppia di mamme lesbiche per ottenere un’adozione “incrociata” delle proprie rispettive figlie biologiche, oggi proveremo ad approfondire un po’ meglio il tema.
La stepchild adoption, di cui tanto si è parlato in queste settimane, è appunto l’adozione del figlio del partner.
Non è una novità legislativa, né – qualora non fosse stato stralciato l’art. 5 dal ddl Cirinnà – sarebbe stata una prerogativa gay. Anzi è vero proprio il contrario.
La stepchild adoption infatti è stata introdotta, per le coppie eterosessuali, fin dal 1983 all’interno della legge sulle adozioni (legge 184 del 1983), permettendo l’adozione del figlio del coniuge (con il consenso di quest’ultimo) e nell’interesse del minore (che deve essere sentito se ha almeno 12 anni e dare il suo consenso se maggiore di 14 anni).
Il riconoscimento non avviene in modo automatico con la semplice richiesta del genitore adottante e del genitore legale, ma viene avviato un procedimento presso il Tribunale volto ad accertare il legame esistente con l’adottato nonché l’idoneità affettiva ed economica, e la capacità educativa e genitoriale del richiedente.
La stepchild adoption – così come normata dalla lett. b art. 44 della l. 184/1983 era riservata alle sole coppie sposate finché a partire dl 2007 le Corti italiane, nell’interesse dei minori coinvolti, non hanno esteso tale possibilità anche ai conviventi eterosessuali.
Appare dunque evidente come, nell’interesse dei minori, non ci fosse alcun motivo per non estenderla anche all’interno delle famiglie omogenitoriali.
A questa soluzione è arrivato, con una serie di sentenze (la prima del luglio 2014 e le successive nel 2015 e poi –
appunto – quella di ieri) il Tribunale per i minorenni di Roma, prevedendo la possibilità di stepchild adoption anche all’interno di coppie omosessuali (al momento solo di donne) in base ad un principio di non discriminazione e nell’interesse superiore del minore di vedere riconosciuta, anche legalmente, una figura genitoriale che già è parte della propria vita.
La norma utilizzata dal Tribunale minorile romano non è stata la stessa riservata alle coppie eterosessuali ma si è ritenuto di accogliere i ricorsi ex lett. d art. 44 della l. 184/1983, ovvero per le ipotesi residuali di adozioni in casi particolari, non normate in modo dettagliato.
La sentenza del luglio 2014 è stata poi confermata anche dalla Corte di Appello di Roma nel dicembre 2015.
Da diversi anni la stepchild adoption è già possibile per le coppie omosessuali in quasi tutti i paesi europei, quali Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Finlandia, Germania, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Svezia. Nella maggior parte di questi paesi è inoltre possibile anche l’adozione piena e legittimante.
In coda va detta una cosa molto importante: a differenza della c.d. adozione piena e legittimante, l’adozione in casi particolari e dunque la stepchild adoption è “semplice” e non estende, ad esempio, il legame giuridico con i familiari dell’adottante. In sostanza, il bambino adottato non acquisisce legami di parentela con i genitori, i fratelli, e gli altri parenti del genitore adottante.
Nel caso di “adozione incrociata” di cui abbiamo parlato in apertura, dunque, le due bambine sono diventate ciascuna figlia adottiva della madre non biologico ma tuttora lo stato non riconosce normativamente il loro legame di sorelle.
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