Il primo pensiero, non appena uscito dal cinema dopo aver visto Stranizza d’amuri, è stato quello della “maledizione di Amelie”. Ricordate il film di Jean-Pierre Jeunet? Ne parlarono così entusiasticamente che quando andai a vederlo ero carico di aspettative. Quasi fosse uno di quelli che ti cambiano la percezione del mondo. E invece fui costretto a ricredermi, con una punta di delusione. Per me, quel film, fu uno dei tanti. Carino, per carità. Ma niente di che. Con l’opera prima di Beppe Fiorello – tratta dal romanzo di Valerio la Martire, Stranizza, e liberamente ispirato al delitto di Giarre – è successa un po’ la stessa cosa.
Un esercizio di stile
Sia ben chiaro, il mio è un giudizio da spettatore. E si limita alla storia e al messaggio in essa contenuto. Non ho alcuna preparazione su scelte registiche e tecnicismi che rendono un film grande e importante. Questi aspetti li lascio a chi se ne intende. E la sensazione – almeno in alcuni passaggi – che mi ha lasciato Stranizza d’amuri, più che di opera prima, è di un esercizio di stile. Una Sicilia talmente caricata, da risultare manieristica. Dialoghi che si accavallano, persino il dialetto utilizzato è una nota fuori posto: nella parte orientale dell’isola non si parla certo il palermitano. Una sicilianitas, insomma, che sembra far sfoggio di sé per ricordare all’utente che ci troviamo in Sicilia. Ma non bastavano la location e le battute?
I personaggi di Stranizza d’amuri
Ciò si riverbera anche nei personaggi. Alcuni dei quali del tutto ridondanti, ai fini della storia. La sorella di Nino, ad esempio, condannata a star seduta in una veranda a fumare nonostante sia incinta. Così come è condannata a vivere all’uscio del bar – lo stesso dove si consumano gli atti di omofobia contro uno dei due protagonisti – Giuseppina, l’amica che tradisce il segreto di Gianni e la cui missione, nella storia, sembra esaurirsi a questa rivelazione. E se alcuni personaggi femminili si riducono a essere ombre, i personaggi maschili sembrano per lo più macchiette. Ipervirilismo, familismo, nonché un disumanizzante senso del dovere fanno da cornice a una storia in cui tutto è urlato. E in cui i due protagonisti, vera rivelazione del film, sembrano del tutto fuori contesto.
Nino e Gianni (e la voglia di innamorarsi)
Resta, infatti, la bellezza e la purezza di un amore giovanile fatto di sguardi, di baci accennati, di pelle che si sfiora. Pulito e solare il volto di Nino, interpretato da Gabriele Pizzurro. Tormentato e pieno di cicatrici – ma pronto a recuperare la sua innocenza di fronte alla felicità – quello di Gianni, impersonato da Samuele Segreto. Eppure, tutta questa delicatezza, sembra stonare di fronte a quelle figure ipertrofiche (dal padre allo zio, passando dai bulli di paese) la cui cifra narrativa sembra essere solo una violenza pronta a esplodere da un momento all’altro. Certo, a vedere i due ragazzi ti viene voglia di innamorarti. Con un finale diverso, va da sé.
Un film per un pubblico eterosessuale
Beppe Fiorello, ieri presente al cinema Ariston di Catania insieme ai protagonisti – tra cui Anita Pomario, che interpreta Giuseppina – ha precisato di aver voluto solo raccontare una storia. Quasi avesse pudore a collocarla dentro un genere specifico: quello della cinematografia a tematica Lgbt+. E in effetti più che di “film gay” si può parlare di un film che parla di due omosessuali a un pubblico prevalentemente eterosessuale. Le narrazioni, infatti, avvengono sempre da due punti di vista, ci ricorda Christian Raimo nel suo libro Contro l’identità italiana: dal centro o dai margini. E quando si narra dal centro, il sistema di potere non ha interesse a contraddire se stesso. La narrazione antisistema avviene nella marginalità. Lì si crea conflitto e rapporto dialettico. Questo conflitto nel film di Beppe Fiorello non c’è.
Un’opera “verista”
Certo, il regista non ha alcun dovere di “attivismo performante”. E lui stesso sembra rendersi conto di questo limite. La sua non vuole essere un’opera politica, stricto sensu, ma di fatto lo è – contro la sua volontà – nel momento in cui non rovescia le polarità in conflitto, ma si limita a raccontarle. Espone alla violenza di una Sicilia forse più arcaica di quella che era la Sicilia degli anni ’80, ma senza problematizzarla. È come un’opera verista verghiana. Ti racconta che c’è un problema, ma non propone alcuna soluzione: quasi a suggerirti che così è e non ci puoi fare niente. Riducendo il portato critico al “love is love”. Con una punta di pietismo finale.
Un film per un pubblico eterosessuale
Poi, di certo è un’opera che mette il pubblico eterosessuale, a cui è rivolto, di fronte al problema dell’omofobia sociale e della sua violenza. E in questo – anche se in modo molto limitato – aiuta la causa, va detto. E sicuramente sono le migliori, le intenzioni del regista, in tal senso. Così come sicuramente è un film che ha un forte impatto tra le persone che lo hanno apprezzato, e in questi casi mi sento di dire che l’utente ha sempre ragione. Perché vale il principio del de gustibus, in un senso e nell’altro. Ma, a giudizio di chi scrive, non cambia alcuna percezione. La maledizione di Amelie, ahimè, ha colpito ancora.