Quando sabato scorso Alessandro Battaglia, membro di punta del Coordinamento Torino Pride, si è avvicinato a me per consegnarmi un bigliettino in mano, non sapevo ancora dell’esistenza di Juliane Santos Duarte, poliziotta trans di Paraisopolis, in Brasile. Era anche conosciuta come Dudu ed è stata uccisa in un bar, in una favela della sua città agli inizi di agosto di quest’anno. Il cadavere è stato ritrovato alcuni giorni dopo nel bagagliaio di una macchina abbandonata. Sul suo corpo, colpi di arma da fuoco. Il suo è solo uno dei 369 casi di omicidio di persone transessuali. Più di uno al giorno, nell’ultimo anno. Anche per Dudu, sabato 17, si era in piazza Castello.
La vita di Dudu, in un biglettino
In quel biglietto — poche righe, stile asciuttissimo e una verità tragica in quelle poche parole — c’era ciò che restava di lei: il suo ricordo e una storia dolorosa. «Ti va di leggerlo, sul palco?» mi ha chiesto Alessandro. Non ho potuto dire di no, anche se parlare in piazza mi mette sempre un po’ a disagio. Ho conservato quella testimonianza e poi ho aspettato che la Trans Freedom March, l’evento che da cinque anni attraversa il centro di Torino, partisse. Da piazza Vittorio Veneto alla meta finale, dove abbiamo letto i nomi e le storie di quelle persone che non ce l’hanno fatta. Perché uccise, perché “suicidate” da una società che fa ancora distinzioni tra chi può arrogarsi il privilegio della norma e chi ne è escluso.
“Smettiamo di essere fenomeni”
«Spero di essere all’altezza della situazione» ho detto a Giziana Vetrano, presidente del Coordinamento, con cui ho marciato in quel gelido pomeriggio autunnale. «Perché dici questo?» mi ha chiesto, guardandomi negli occhi. «Ho paura che mi si spezzi la voce» le ho confidato. È colpa dell’età. Sono diventato più umorale, mi commuovo facilmente. Nel frattempo, tra gli interventi che precedono il mio, c’è stato anche quello di Daniela Lourdes Falanga, del Comitato territoriale di Arcigay Napoli: «Noi persone trans, nella visibilità dell’agire politico smettiamo di essere “fenomeni”. La voce con cui raccontarci deve essere la nostra e deve essere sempre più alta e consapevole». La gente, là fuori, deve capire questo. Per recuperare il senso di un’umanità perduta che si trasforma, troppo spesso, in odio e violenza. E quindi in tragedia.
E poi quella voce interiore…
Arriva il mio turno. Salgo sul palco, stranamente la tensione non c’è più. Leggo la mia storia. Anzi, quella di Juliane Santos Duarte, poliziotta trans di Paraisopolis, detta Dudu. Andando via da lì, con la poesia delle candele in terra le cui fiamme parevano ballerine d’inverno, con la gente tutta lì attorno e i colori della città, già per le feste di Natale, quasi fossero un sacrilegio al cospetto del dolore, ho però capito cosa avrei voluto dire davvero. È stata una voce interiore, nettissima, in mezzo a quelle dei ricordi. Una voce che mi diceva che noi, delle persone, dovremmo celebrare le vite. Che quella violenza che uccide e cancella intere esistenze, fino a confinarle in bigliettini di carte, non deve accadere mai più.
Il ricordo di Caterina
E allora ho pensato a Caterina, la prima donna trans con cui ho interagito in prima persona. Con la sua ruvidezza e il suo buon cuore. Ho pensato a quanto ho pianto, quando è andata via, perché anche quando si litigava, lei un pezzo di crostata te lo portava sempre. E che quando le facevi i dispetti, per ridere insieme, ad un certo punto ti guardava senza dir nulla. Aveva quel modo di girarsi verso di te, con un unico scatto imperioso e il guazzabuglio di colori, dal marrone al verde attorno alla pupilla. Quello sguardo che si fissava nella coscienza e che ti divertiva e intimoriva allo stesso tempo.
Le risate con Milo, l’impegno di Ethan
E ho pensato alle risate con Milo, che è in transizione da poco. Quando lo chiamo a volte sbaglio ancora i pronomi e gli aggettivi, perché io l’ho conosciuto che era ancora “lei” e un po’ di confusione ancora ti viene. E lui ti prende in giro, ma senza smettere di sorridere mai. Perché quando ci si (ri)conosce, è come con l’immagine allo specchio: c’è sempre qualcosa di te, dall’altra parte. E ho pensato a Ethan, e a tutto l’impegno che ci mette quando fa politica. Che è forte come il vento, in primavera, quando scuote i campi di grano senza violarne bellezza e poesia.
Le poesie di Giovanna e le chiacchiere con Massimo
Ho pensato al sorriso di Massimo, alla bicicletta rosa fuori dalla sua bottega a Ballarò, che se ci passi e ti fermi, una chiacchierata ci scappa sempre. Alle poesie di Giovanna, che sta diventando famosa e va in giro per l’Italia a dir di sé, del suo bozzolo che un tempo era come la fine del mondo e che ora il resto del mondo riconosce nel suo destino di farfalla. Ad ali spiegate, con grazia. In mezzo alla vita. Tutto questo avrei voluto dire, parlando anche di loro e di tutte le persone trans che ho conosciuto e mi hanno accompagnato, anche solo di sfuggita. Ma da cui ho appreso che la vita è quella cosa che accade quando decidiamo di darci il nostro nome interiore che coincide con quello della nostra libertà.
Celebrare la vita
Sono stati pensieri fuggevoli, eppur vigorosi. Deve essere stato per questo, ho pensato, che alla fine la voce non si è spezzata. Che quasi quasi, in quel momento, il freddo per un attimo non c’era più. Scendo per gli scalini, Giziana è lì che aspetta il suo turno. Lei, adesso. «Ce l’hai fatta» mi fa notare. Sorrido, farfuglio qualcosa, adesso non ricordo. Ma è stato un po’ come quegli episodi con le guerriere Sailor, quando tutte insieme sono accanto alla principessa della Luna, per darle forza, contro il malvagio di turno. Anche se poi, a ben vedere, non sono lì. Perché stanno dentro te. Come il coraggio. Ed è così che voglio celebrare oggi il Tdor. Portandomele dentro, tutte queste persone. Con la loro vita, che è un po’ anche la mia.